Sulla guerra si rovescia una mobilitazione colossale di armi e risorse, in uno scontro fra determinazioni sempre più esplicite, alle quali tutto il resto è sacrificato. Evapora la possibilità di negoziati anche solo parziali. Il fango si asciuga in Ucraina.

E ciascuno pensa di poter guadagnare combattendo. Così il Segretario Generale dell’Onu esce di scena fra i missili, quello della Nato parla di guerra per anni, e nel parlamento inglese – la culla della democrazia – si evoca l’idea del supporto terrestre. Nulla pare frenare la guerra: siamo in piena escalation, ci siamo arrivati lungo la logica di realtà evidenziata proprio da chi è stato tacciato di idealismo pacifista. La spinta verso l’escalation riguarda anche gli obiettivi: ridurre le capacità di nuocere della Russia in futuro – obiettivo evocato dal Segretario alla Difesa Austin durante la visita a Kiev – ci proietta infatti in uno scenario assai diverso rispetto a quello del contributo per porre termine all’aggressione.

CERTO, A FRONTE dell’afflusso di armi sempre più pesanti e sofisticate, fino ad oggi l’escalation di intensità è stata relativa: sempre più distruzione di infrastrutture, ma i russi finora non hanno sfondato e l’efficacia della loro azione militare continua a sollevare dubbi. Tuttavia la guerra muta: il generale Gerasimov, già capo delle forze armate, è in arrivo sul teatro ucraino, mentre corrono voci di una mobilitazione generale. Nei talk show televisivi russi, pessimo riflesso dei nostri altrettanto pessimi, si evocano ormai quotidianamente scenari nucleari, speculando sull’incenerimento delle capitali europee.

DA ANNI ORMAI Russia e Stati Uniti sono impegnati nell’ammodernamento dei propri arsenali nucleari, con significative difficoltà in materia di controllo degli armamenti. Proprio ieri Mosca ha definito ‘congelato’ il dialogo strategico. Mosca e Washington detengono più del 90% delle testate nucleari del pianeta: quelle montate su missili balistici intercontinentali possono essere lanciate entro 15 minuti dall’ordine presidenziale.

ALL’INIZIO dell’Era Putin la Russia ha intrapreso un programma che ha portato a testare vettori ipersonici: al pari di quelli cinesi e americani si tratta di un serio problema per i meccanismi di deterrenza. Il Cremlino dispone di circa 14 mila armi nucleari (la maggior parte non immediatamente utilizzabile), mentre si stima che possa dispiegare via mare o sul terreno di battaglia 16 mila armi nucleari tattiche. Per contro, gli Stati Uniti contano circa 3.750 testate (150 in Europa, Italia inclusa).

DAL 2020 LA RUSSIA ha reso pubblica la propria dottrina nucleare, sostanzialmente ancorata all’idea di impiego in condizioni di minaccia per l’esistenza dello stato. Da allora Putin ha più volte evocato l’atomica, esaltando il distruttivo dell’arsenale russo. Il ministro degli esteri Lavrov ha recentemente rigettato l’idea, diffusa in Occidente, che la Russia si proponga di alimentare escalation tramite i riferimenti al nucleare al solo fine di indurre una de-escalation del conflitto convenzionale. Si ripropone qui il paradosso della logica nucleare: la deterrenza funziona solo nella misura in cui le minacce appaiono molto credibili, ovvero leggibili in un quadro coerente, di forte determinazione e in assenza di esitazioni. Questo alimenta escalation nella retorica pubblica. In altre parole, conta il convincimento, e dunque la dimensione ideologica della guerra. Non appaiono oggi ragioni razionali per cui la Russia, data la configurazione della guerra in corso, potrebbe razionalmente oltrepassare la soglia dell’impiego di armi nucleari tattiche. Tuttavia, abbiamo a che fare con un invasore che ha già sbagliato i calcoli e che con sempre maggiore insistenza evoca il tema dell’esistenza della nazione russa, rappresentata come minacciata dagli interessi e dai valori dell’Occidente.

DALL’INIZIO DELL’INVASIONE dell’Ucraina in poi messaggio del Cremlino è semplice e finalizzato a inibire la reazione internazionale: state alla larga dall’operazione in Ucraina o dovrete affrontare il rischio di un’escalation con implicazioni nucleari. Stante questa premessa e il rischio esistenziale che il Cremlino si è preso, negoziare con la Russia significa toccare alcuni dei principi-cardine dell’ordine internazionale. Soprattutto in presenza di gravi crimini di guerra, negoziare la sorte di regioni conquistate con la forza sarà quanto mai difficile: di peggio c’è forse solo pensare che la vittoria sia dietro l’angolo se si distrugge di più e più a lungo.
Del resto sin dal 2008, quando annesse i territori di Abkazia e Ossezia del Sud, Putin è stato chiaro circa il precedente dell’indipendenza del Kosovo rispetto ai «tanti Donbas» che esistono nello spazio ex sovietico. Nonostante questa insistenza, in questi 14 anni la Russia non ha mai riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, né – fino ad ora almeno – quella della stessa Transdnistria.

NON EMERGE, IN sostanza una vera e propria dottrina-Putin in materia di indipendenze e annessioni, forse anche per non contrariare Cina e India, alle prese con le proprie questioni separatiste. Emerge invece sempre di più una retorica ‘contro l’oppressione neo-coloniale occidentale’ che paradossalmente oggi candida l’espansionismo russo, proprio mentre mette a ferro e fuoco l’Ucraina come se fosse una provincia ribelle, a sfidare l’Occidente liberal-democratico anche a nome di altre potenze regionali. Questa dinamica è insidiosa per l’Europa.

VEDERE I MERCENARI russi di Wagner acclamati come liberatori in Africa, cavalcando l’impopolarità degli occidentali mentre aprono il fuoco sui civili, ci dice dell’urgenza per l’Europa di smarcarsi dalle politiche di due pesi e due misure figlie dei più controversi processi di (de)colonizzazione (inclusi i Territori palestinesi o le occupazioni militari turche nel nome dell’ideologia neo-ottomanista). Ci dice, in altre parole, quanto necessario sia investire materialmente sulla pace: ascrivere la pace alla realtà e la guerra all’ideologia.