Le armi non sono solo strumenti al servizio di una volontà politica, ma anche una determinante della volontà stessa, un aspetto costitutivo dell’ordine sociale a venire.

Se c’è una cosa che si apprende dalle tante guerre che hanno sfigurato intere regioni del mondo in questi ultimi decenni, è che le guerre iniziano in un modo, animate da certi principi e fazioni, e nel tempo si trasformano. Chi e come ha accesso a determinati tipi di arma non rappresenta un dettaglio all’interno di uno scontro fra forze ‘idrauliche’ fra loro opposte, la cui natura e identità può essere data per scontata, bensì un aspetto importante di questa trasformazione e della natura del sistema che ne nascerà domani.

Nulla fa presagire che la guerra nata con l’aggressione russa all’Ucraina, nella cui escalation sono spariti i tavoli negoziali, sarà breve e contenuta.

Esistono argomenti che possono essere legittimamente invocati per dare ogni supporto alla parte aggredita: tuttavia, se ci si attiene alle evidenze di ricerca sui conflitti armati, è molto difficile poter condividere l’argomento, ormai diventato un refrain, che presenta il trasferimento massiccio e sempre più indiscriminato di armi quale mezzo per abbreviare la durata della guerra e ridurre le sofferenze della popolazione.

Con tutti i dovuti caveat che l’analisi comparativa rende necessari, non si ricordano precedenti che corroborino questa ipotesi – forse con l’eccezione degli Usa con Israele nel 1973 – mentre vi è ampia evidenza di come la fornitura di armi – fornitura diretta a parti alle quali diventa sempre più chiaro come non perdere equivalga a vincere – sia associata a conflitti che si protraggono nel tempo e si rivelano particolarmente sanguinosi, tanto più sanguinosi se caratterizzati dalla distribuzione di armi alla popolazione.

Qualcuno invoca a favore del trasferimento di armi il precedente delle forniture ai curdi nel nord dell’Iraq, o il train & equip statunitense per le Syrian Defense Forces a guida curda. Ma si trattava di combattere un contro-stato come l’Isis, non la seconda potenza nucleare del pianeta. Altri evocano il peso decisivo delle forniture di armi sovietiche ai vietcong, in una guerra non propriamente ricordata come breve e capace di risparmiare sofferenze ai civili.

La verità è che l’evidenza scientifica a favore della fornitura è quantomai fragile e controversa, mentre su tutto dominano storie di escalation finite fuori controllo, oppure conflitti armati senza fine, territori tenuti ostaggio da guerre diventate sistemi semi-permanenti, fino a smarrire la traccia dell’inizio. La memoria sull’Afghanistan è calata troppo in fretta.

Le guerre che si protraggono nel tempo a loro volta mostrano una certa propensione all’escalation orizzontale, ovvero al coinvolgimento di altre parti, il più delle volte i paesi vicini (si pensi agli interventi in Siria di Turchia, Iran, paesi del Golfo, e infine Russia nel corso degli undici anni di guerra). Il che, nel caso ucraino, significherebbe il coinvolgimento della Nato, il cui ruolo è ben presente agli stralunati commentatori sulle tv russe, che l’additano ormai quotidianamente come il vero nemico che impedisce il successo in Ucraina e si macchia del sangue dei soldati russi.

Ora, è ben vero che fino ad oggi l’incremento sempre più marcato di armamenti forniti dagli alleati atlantici al governo ucraino non ha fatto registrare una visibile escalation. Impantanate sul fronte settentrionale che puntava alla capitale, le truppe d’occupazione si sono anzi ritirate per convergere verso il Donbass, lasciandosi dietro una scia di atrocità (circa mille civili trucidati) che gridano vendetta e invocano giustizia.

È però anche vero che questa è una prima fase della guerra, che nei giorni scorsi il Cremlino ha trasmesso note formali che chiedono l’immediata cessazione del supporto militare a Kyiv, e che nel frattempo il tipo di armi trasferite è sempre meno catalogabile come difensivo.

L’argomentazione ucraina è chiara: in una guerra di difesa ogni arma è difensiva. Tuttavia, è solo accettando l’idea dell’indistinguibilità fra offesa e difesa, idea tipica di escalation meno gestibili, che tale argomentazione può essere accolta.

Non è semplice gestire l’escalation con qualcuno che, come Vladimir Putin, ha sbagliato parecchi calcoli, e non passa giorno che non invochi, accanto al patriarca ortodosso Kirill, minacce esistenziali per la nazione e la civiltà russa.

L’Occidente oggi appare intento a rastrellare soprattutto quanto rimane degli arsenali ex sovietici per fornire agli ucraini in tempi più rapidi possibili artiglieria sempre più a lunga gittata, mezzi per il trasporto truppe, munizioni, carri armati e droni. Lo fa senza più entrare troppo in dettaglio, guidato da un presidente statunitense che, coperto dal rumore delle pale dell’elicottero su cui sta per salire – ormai un format dal sapore molto combat executive – rilascia dichiarazioni pressoché indistinguibili da quelle del governo ucraino, da quello polacco o da quello britannico, con quest’ultimo intento a coordinare i Paesi che donano armi attraverso il Comando Europeo Usa di Stoccarda.

Braccata dal fait accompli mediatico, l’Europa continentale sembra destinata a seguire l’agenda senza riuscire a influenzarla. Ogni invito a ponderare le opzioni, a cercare la via politica considerando anche scenari di guerra nel medio periodo, viene stigmatizzato.

L’idea di fondo è tenere l’unità degli intenti fino a raggiungere il fatidico tipping point (il punto critico), il punto in cui la volontà del nemico viene piegata e la guerra prende un’altra piega. Questa idea della guerra lineare sempre uscire da un manuale, e poco si avvicina alla realtà di conflitti armati protratti ad andamento intermittente e opportunistico, ferite profonde che abbiamo visto affiorare nei Balcani, e che oggi lacerano gran parte del sud del mondo.

Si tratta di quelle periferie del pianeta dove, in materia di aggressione e supporto a popolazioni aggredite, trionfano i doppi e tripli standard della comunità internazionale: la coerenza fra obiettivi, principi e mezzi, però, non può essere invocata, pena essere accusati di benaltrismo.

In queste settimane abbiamo appreso che all’atto pratico alcuni rifugiati sono più rifugiati di altri, mentre un’ampia parte del mondo, quella che ha fatto esperienza della colonizzazione, non condanna apertamente una Russia sempre più repressiva ed aggressiva in tema di diritti umani.

Se anche questa guerra sul territorio ucraino troverà malfermi punti di arresto, Putin ha tutta l’intenzione, con guerra e militarismo, di trasformare la Russia e le relazioni internazionali. Il rischio di un conflitto che si allarga è più che mai presente e viene, se non alimentato, quantomeno dilatato dal sonnambulismo di risposte politiche protese a misurare i propri (s)vantaggi relativi.