«Il plotone di esecuzione», come Cristina Kirchner ha definito il tribunale chiamato a giudicarla, ha sparato: nel processo noto come «causa Vialidad» – sui presunti appalti truccati di lavori stradali a Santa Cruz a favore dell’uomo d’affari Lázaro Báez tra il 2003 e il 2015 – i tre giudici della Corte orale federale 2 Rodrigo Giménez Uriburu, Jorge Gorini e Andrés Basso hanno condannato la vicepresidente dell’Argentina a 6 anni di reclusione per amministrazione fraudolenta e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Una sentenza già scritta – l’unico elemento di incertezza era dato dagli anni di reclusione -, emessa al termine di un processo viziato da irregolarità di ogni tipo e basato, proprio come il celebre processo del triplex contro Lula, su convinzioni più che su prove.

IL PM DIEGO LUCIANI aveva chiesto per l’attuale vicepresidente (ed ex presidente) una condanna a 12 anni di reclusione per associazione a delinquere, più l’interdizione a vita da cariche pubbliche, accusando sia lei che, prima di lei, suo marito Nestor Kirchner di aver dato vita a «una delle matrici di corruzione più straordinarie che si ricordino nel paese».

A chiedere l’assoluzione di tutti i 13 imputati era stata invece l’agenzia antiriciclaggio del governo (Unidad de información financiera,Uif), secondo cui non ci sarebbe stato «nessun sovrapprezzo nelle concessioni di opere pubbliche analizzate», tutte peraltro previste nel bilancio votato ogni anno al Congresso nazionale. E, in ogni caso, in tre anni e mezzo di processo, non è saltata fuori nessuna prova che Lázaro Báez – vincitore di 51 appalti – fosse stato favorito.

Proprio come per la farsa giudiziaria ai danni dell’ex presidente del Brasile, non sono mancate neppure in questo caso clamorose connivenze tra giudici e procuratori: il presidente del tribunale Giménez Uriburu e il pm Diego Luciani giocavano nella stessa squadra di calcio, La Liverpool, le cui partite si tenevano a Los Abrojos, l’immensa tenuta bonaerense di Mauricio Macri.

Che la condanna fosse scontata, è risultato poi ancora più chiaro dopo lo scandalo esploso domenica con la pubblicazione delle conversazioni su Telegram tra giudici federali, procuratori e imprenditori macristi, tutti impegnati a discutere su come nascondere le prove di una loro riunione segreta nella lussuosa dimora dell’impreditore Joe Lewes sul Lago Escondido – quello a cui non possono accedere i cittadini comuni – raggiunta con un jet privato pagato dal Gruppo Clarín (il più grande conglomerato mediatico del paese). Tra loro anche Julián Ercolini, il magistrato che ha istruito proprio la causa Vialidad, il ministro della Sicurezza di Buenos Aires Marcelo D’Alessandro e un ex funzionario dell’intelligence.

PER LA VICEPRESIDENTE, in ogni caso, la vicenda processuale non finisce certo qui. Dopo la pubblicazione delle motivazioni della sentenza, dovranno ancora pronunciarsi la Corte di Cassazione e la Corte Suprema, composte però in maggioranza da giudici ugualmente allineati alla destra. Ma in carcere Cfk (come viene chiamata Cristina Fernández de Kirchner) non ci metterà comunque mai piede: protetta oggi dall’immunità parlamentare, compirà 70 anni a febbraio e, da allora, il peggio che potrà capitarle saranno gli arresti domiciliari. E, prima di allora, potrà persino ricandidarsi alle elezioni del 2023.

Quanto alle ripercussioni della sentenza, è presto per dire quali saranno. Se fin dalla mattina diverse organizzazioni si sono riunite davanti alla sede della Giustizia federale in attesa del verdetto, c’è chi scommette che l’interesse per la partita tra Argentina e Paesi Bassi per i quarti di finale dei mondiali – una pausa momentanea dai drammi quotidiani legati all’inflazione, alla disoccupazione, ai programmi di aggiustamento – supererà quello per le vicissitudini giudiziarie della vicepresidente.

PIÙ MESSI CHE CRISTINA, insomma, al momento. Tanto più che l’esperienza di governo, fin qui fallimentare, di Alberto Fernández non può non oscurare anche la figura di Cfk, malgrado i suoi sforzi di smarcarsi – ma mai del tutto – dalle decisioni più impopolari del presidente, a cominciare dal contestatissimo accordo con il Fondo monetario internazionale sulla ristrutturazione del debito contratto da Macri.