La ricerca e la cultura moderne sono fondate sul rispetto per la vita umana. In tale contesto, lo scopo dell’archeologia è gettare luce sull’umanità attraverso lo studio della formazione delle identità sociali e culturali, così come della nostra memoria collettiva contemporanea. Agire eticamente per promuovere la pacifica convivenza tra i popoli dovrebbe essere la più alta aspirazione degli studiosi che si confrontano con società vittime di conflitti armati. In virtù dei suddetti principi, l’associazione Syrians for Heritage (Simat), che ambisce a «preservare il patrimonio siriano per tutti i siriani e per il mondo», condanna fermamente i progetti dell’Università Sapienza di Roma in Siria.

Un documento diramato l’8 settembre dall’associazione si rivolge in particolare alla missione archeologica avviata lo scorso giugno a Tell Ferzat, nell’entroterra di Damasco. Il sito si trova infatti nella Ghouta orientale, regione che ha subito atrocità e crimini di guerra da parte dell’attuale regime siriano, inclusi attacchi chimici (si veda a questo proposito il rapporto del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite del 12 febbraio 2014 riguardante l’uso del sarin) e un gravoso assedio mirato ad affamare la popolazione civile.

COME SE QUEST’INIZIATIVA accademica non fosse già sufficientemente deprecabile, il medesimo team ha annunciato il 5 settembre tramite l’Ansa la volontà di riprendere le attività nell’antica Ebla, oggi Tell Mardikh. Anche in questo caso, si tratta di una località ubicata in una zona a sud di Aleppo largamente spopolatasi a causa di massicci bombardamenti. Com’è noto, Ebla – una delle più prospere città-stato del Vicino Oriente tra il 2600 e il 1500 a.C. – è stata scoperta nel 1964 da Paolo Matthiae, che vi ha condotto ininterrottamente scavi fino al 2010, riportando alla luce templi, palazzi e fortificazioni ma anche un archivio composto da migliaia di tavolette d’argilla in caratteri cuneiformi.

Matthiae, coadiuvato sul campo da Frances Pinnock e Davide Nadali, chiede ora allo stato italiano adeguati finanziamenti da destinare sia alla messa in sicurezza delle rovine, danneggiate dalla costruzione di tunnel, trincee e bunker durante l’occupazione dei miliziani di al-Qaeda, che al rilancio dei cantieri di scavo.

Ma se per l’illustre orientalista urge «riabilitare» l’area archeologica, la Simat e il Centro per le antichità di Idlib deplorano l’atteggiamento degli studiosi italiani, che avrebbero peraltro rifiutato di cooperare con le comunità locali per la salvaguardia dei monumenti e dei reperti di Tell Mardikh (comprese le tavolette dell’archivio reale di Ebla conservate al museo di Idlib). D’altronde, nel 2016 i rappresentanti della missione di Ebla avevano partecipato a un convegno svoltosi al museo di Damasco mentre l’Isis rioccupava Palmira e le forze di al-Assad radevano definitivamente al suolo Aleppo. Secondo i membri dell’associazione siriana, le indagini a Tell Ferzat e Tell Mardikh «aggiungeranno carburante al conflitto politico e contribuiranno a trasformare anche l’archeologia in un’altra arma dell’arsenale militare, piuttosto che sostenerne il ruolo e l’importanza come veicolo / mezzo per il dialogo e il raggiungimento della pace».

OLTRE A SOTTOSCRIVERE l’appello della Simat, un collettivo di assiriologi e di specialisti di archeologia del Vicino e Medio Oriente, nel quale figurano Cheikhmous Ali, Francesca Baffi, Maria Giovanna Biga, Franco D’Agostino, Simonetta Graziani, Marc Lebeau, Marco Ramazzotti, Maurice Sartre e Annie Sartre-Fauriat, ha redatto una dichiarazione di etica professionale.

Il documento, pubblicato il 10 settembre sul sito www.syriansforheritage.org afferma che gli archeologi – così come i ricercatori di qualsiasi disciplina – hanno il dovere di porsi in modo sensibile e moralmente responsabile nei confronti degli avvenimenti che colpiscono i paesi in cui operano. I firmatari considerano dunque inaccettabile la collaborazione stretta dall’équipe della Sapienza con la Direzione Generale delle Antichità e dei Musei Siriani (Dgam), organo di propaganda di un regime che viola costantemente i diritti umani.

LA SIMAT, deplorando il disprezzo per la sofferenza del popolo siriano, si spinge fino a chiedere che l’Università Sapienza di Roma e i ministeri competenti rivalutino il loro riconoscimento istituzionale e finanziario ai progetti di Tell Ferzat e Tell Mardikh e si impegnino, nell’imminente futuro, a rispettare invece gli sforzi dei loro partner europei e internazionali diretti a ricercare una giusta soluzione politica del conflitto siriano. Il grido di un popolo ferito e falcidiato non è forse una delle voci della Storia che gli archeologi si affannano a ricostruire affinché la memoria del passato sia conoscenza ma anche insegnamento?