La voce di Antonio Latella arriva al telefono da Venezia un poco di tempo prima di immergersi nelle prove dello spettacolo di Martina Badiluzzi, una delle giovani autrici nel cartellone della prossima Biennale Teatro (14-25 settembre), la prima nell’anno della pandemia, dopo il lockdown, la chiusura dei teatri, le limitazioni per la sicurezza che hanno stravolto i programmi festivalieri e che lasciano aperte molte domande sul futuro dello spettacolo dal vivo. Il titolo sarà Nascondi(no), un gioco di parole che «dialoga» col tema della censura sul quale hanno lavorato gli artisti invitati, tutti giovani, tutti italiani. La scelta però non si deve al Covid-19, ma era già prevista in accordo con la sua direzione – il cui mandato termina quest’anno – che si è concentrata sui talenti emergenti, sul lavoro di scouting anche grazie alla Biennale College, con la convinzione che un grande festival deve poter essere un laboratorio di ricerca e di scoperta verso il futuro. «Volevo mettere al centro dopo tre anni con gli artisti internazionali il nostro teatro, a partire da quei nomi che non sono stati ancora scoperti all’estero» dice Antonio Latella che invece come regista lavorerà nei prossimi mesi a Vienna, a un nuovo spettacolo su Oscar Wilde – «Mi piacciono quelle figure autoriale che si sono esposte nella loro arte fino a pagare con le proprie vite».

Per il teatro, come più in genere per lo spettacolo dal vivo sono stati mesi molto difficili, e l’orizzonte  appare ancora incerto. Tutto questo ha influito sulle scelte artistiche?
In realtà avevo in mente di fare un’edizione interamente italiana già due anni fa, il lavoro sugli attori e performer aveva avuto una grande eco tra gli operatori internazionali che erano venuti da moltissimi paesi per scoprire i nuovi artisti italiani. E questa è la scommessa della Biennale Teatro 2020. Per la prima volta, un po’ come accade nella Biennale Arte siamo partiti da un tema unico, la censura, intorno al quale ho chiesto a tutti gli artisti invitati di proporre degli itinerari di ricerca andando oltre quanto la parola suggerisce. Ho scelto gli autori e non gli spettacoli, che in parte scoprirò anche io una volta messi in scena, immaginando il festival come una collettiva del teatro italiano, un «Padiglione Italia» del teatro.

Il tema della censura è sempre molto attuale, come ci ha mostrato anche il virus, a essere sacrificato è stato lo spazio pubblico, una dimensione che appartiene al teatro – e alla cultura più in generale – e che è importante ritrovare.
In che modo invadere questo spazio, riprenderlo e riempirlo di proposte culturali è uno dei punti centrali della nostra riflessione, anche perché il rischio molto concreto che si corre è quello di vedere i teatri occupati solo dall’ intrattenimento come se noi dovessimo diventare i buffoni di corte. Si continua a ripetere che siamo in un momento storico nel quale dobbiamo «ripartire» e «ricominciare», invece potremmo dire che dobbiamo partire e cominciare. Se pensiamo al fatto che siamo liberi dall’obbligo di riempire le sale a tutti i costi – visto il distanziamento – quale situazione migliore per osare, rischiare, proporre cose che la «paura di non riempire» fanno scartare?
Il tempo che stiamo vivendo è ovviamente entrato nei lavori, e le costrizioni imposte dal virus sono divenute parte del tema. C’è stata una grande adesione da parte di tutti gli artisti coinvolti che si sono incontrati e confrontati nel processo creativo mettendo in comune i loro pensieri e i loro contributi che poi verranno condivisi con gli spettatori. Il tema della censura è stato sviscerato a 360 gradi, dalla politica alla società ai limiti che imponiamo noi stessi. Come suggerisce anche il titolo di questo Atto quarto, Nascondi(no), l’effetto finale è un po’ quello di un unico spettacolo per dire che solo la conoscenza, il confronto con i tabù ci può rendere migliori. Nascondere invece non aiuta a crescere.

Dicevi che hai scelto gli artisti e non gli spettacoli, ci sono artisti e compagnie giovani, alcuni come Fabio Condemi o Giovanni Ortoleva scoperti grazie al lavoro con Biennale College.
Nel tema della censura c’è anche un aspetto pratico che riguarda quella grande parte del teatro italiano definita «di ricerca». Il punto è che nelle istituzioni la ricerca arriva solo quando si tratta di nomi affermati mentre per me lo sforzo dovrebbe concentrarsi su chi non si conosce. A Berlino dove vivo è già così, il pubblico dei grandi teatri istituzionali è abituato ai linguaggi nuovi, anzi li esige e quando non li ritrova in uno spettacolo protesta. Per questo sono convinto che si devono sostenere i giovani, una figura come Condemi è un caso straordinario, ha iniziato grazie alla Biennale College e come altri ragazzi che hanno partecipato al bando è entrato di diritto nel teatro italiano. Ho cercato di portare al festival quegli artisti che per me stanno cambiando il linguaggio teatrale, dei quali si sentirà parlare nel futuro. Molti di loro vanno in direzioni lontane da me ma in questi quattro anni non ho mai seguito il «gusto» scegliendo solo le cose che mi piacevano così come non ho mai portato una mia regia in Biennale. Credo infatti che un direttore artistico deve guardare soprattutto a ciò che sta condizionando il linguaggio teatrale, a quei lavori che esprimono la necessità di una ricerca personale, che hanno una forma autoriale. Mi piace pensare a una Biennale d’autore in cui la figura del regista è cambiata, non è più un «dittatore» come nella tradizione novecentesca ma qualcuno che pensa a forme e contenuti all’interno di una comunità.

Come vedi il futuro prossimo del teatro? Ci sono molti interrogativi, le norme sanitarie condizionano anche gli artisti e quindi i risultati del loro lavoro.
Dopo il festival andrò a Vienna per le prove di un nuovo spettacolo, come tutti ho le mie preoccupazioni, ma il direttore del teatro mi ha subito rassicurato: se apro il teatro, mi ha detto, ho il dovere di metterti in condizioni di lavoro le più sicure possibili, con un medico, i tamponi ecc. Sono stati imposti molti limiti al teatro, se pensiamo che sui treni, sugli autobus tanti stanno senza mascherina e non c’è distanziamento, mentre al ristorante il cameriere può toccare posate, piatti, cibo e invece l’attore in scena no. Queste regole, anche se necessarie, rischiano di soffocare la cultura specie in un Paese come il nostro dove fatica a sopravvivere. Quest’anno vista la situazione in continua evoluzione, è stato più difficile che mai organizzare il festival, e in questo senso il gesto della Biennale è stato molto altruistico, ha permesso di rispondere coi fatti nel rispetto del protocollo di sicurezza aprendo a spettacoli diversi, non solo monologhi. C’è stata la bellissima intuizione del presidente Roberto Cicutto di unire i diversi settori della Biennale nel lavoro comune della mostra Le muse inquiete, a cui tutti noi direttori abbiamo collaborato, che ci ha avvicinati e ci fa capire quanto sia importante, specie oggi, aprire.

Questo è anche il tuo ultimo anno alla Biennale, cosa ti mancherà?
Sono stato felice di potermi occupare degli artisti e di stargli vicino come forse mi piacerebbe facessero con me, e naturalmente anche dei successi internazionali, di avere aiutato a riaccendere almeno un po’ le luci sul teatro. Sono stati quattro anni di condivisione e di studio da un’esperienza molto importante, e questo è l’aspetto che di cui sentirò più la mancanza.