Mancano ancora due mesi all’inaugurazione della 60/Esposizione internazionale d’arte di Venezia e mentre piovono i progetti che occuperanno i numerosi padiglioni nazionali, molti incentrati sui diversi colonialismi o sull’emergenza che sta vivendo il nostro pianeta, il suo palcoscenico culturale si incendia.

LA SITUAZIONE DI TENSIONE mondiale – dal conflitto sanguinoso in Medioriente, ai massacri, fino all’aggiramento dei diritti umani e la violenza perpetrata sulle donne da governi come quello dell’Iran – sbarca in Laguna e accende la miccia. È così che, dopo la lettera-petizione sul boicottaggio di Israele – firmata già da oltre dodicimila fra intellettuali, registi, artisti e curatori, molti dei quali ebrei – è la volta della Repubblica Islamica dell’Iran. L’appello è stato lanciato dal Woman Life Freedom Europe e da Woman Life Freedom Italy. In ottobre, ufficiosamente, si era venuti a conoscenza che l’Iran, non avendo presentato progetti, era rimasto fuori dalla Mostra, salvo poi riscoprire, a inizio anno, il suo inserimento nell’elenco dei padiglioni nazionali (aveva avanzato la sua candidatura all’ultimo), con tanto di artista scelto dal regime. Una presenza che ha destato «stupore e rammarico».
«Nel pieno del terrore, Woman Life Freedom Italy Community e Woman Life Freedom Europe Community, a nome degli artisti dissidenti e degli artisti indipendenti, e del popolo iraniano perseguitato, chiede di dare un segnale forte e chiaro alla comunità internazionale, con una voce autorevole che annulli la partecipazione dell’Iran e degli artisti asserviti al regime alla Biennale arte di Venezia 2024». La lettera – che vede fra i firmatari l’artista Shirin Neshat e la fumettista e regista Marjane Satrapi, così come il premio Nobel per la pace Shirin Ebadi e, in Italia, i registi Nanni Moretti, Marco Bellocchio, Francesca Archibugi, gli sceneggiatori Sandro Petraglia e Stefano Rulli, le scrittrici Gabriella Caramore e Mariolina Venezia, l’autore Marcello Fois, i curatori Luca Massimo Barbero e Chiara Bertola, l’artista Joseph Kosuth, il musicista Paolo Fresu, fra gli altri – è stata inviata anche alla presidente Giorgia Meloni: «Dall’omicidio di Mahsa Amini (16 settembre 2022), il Governo italiano, come tanti altri Paesi e istituzioni democratiche, ha preso le distanze e ha evitato gli incontri governativi con il regime iraniano o qualsiasi loro partecipazione ufficiale in Italia. Perché un’importante istituzione come La Biennale di Venezia si presta a legittimare la delegazione di un regime dittatoriale che da 45 anni censura ogni espressione artistica? (…) Ora più che mai è necessario prendere una posizione netta e chiara contro il regime della Repubblica Islamica dell’Iran, con chi ha le mani sporche di sangue. Questo regime non può e non ha più il diritto di rappresentare il popolo iraniano e gli artisti iraniani. Stranieri ovunque (tema della rassegna del curatore brasiliano Adriano Pedrosa, ndr) siamo noi, costretti a lasciare il nostro paese».

SU ISRAELE SI ERA ESPRESSA invece l’associazione Anga, che si definisce come un gruppo internazionale di artisti, curatori, scrittori e operatori culturali. «Niente Padiglione del genocidio alla Biennale di Venezia», recitava il documento che ha iniziato a circolare in rete qualche giorno fa e puntava il dito sul silenzio dell’istituzione rispetto al conflitto mediorientale e al massacro del popolo palestinese dopo i fatti del 7 ottobre di Hamas. Vi si sottolineava come, invece, all’indomani della guerra in Ucraina, fossero state prese di posizione per nulla ambigue, manifestando quindi «sconcerto per il doppio standard».
Proprio ieri la Biennale ha deciso di rompere gli indugi e rilasciare una sua dichiarazione. Misuratissima e che in fondo la lascia fuori dal campo di battaglia, non spostando l’ago a favore di nessuno. «Tutti i Paesi riconosciuti dalla Repubblica italiana possono in totale autonomia richiedere di partecipare ufficialmente. La Biennale, di conseguenza, non può prendere in considerazione alcuna petizione o richiesta di escludere la presenza di Israele o Iran». Poi ricorda che ci saranno artisti palestinesi in mostra e anche in alcuni eventi collaterali. Uno però non è rientrato fra quelli ufficiali: organizzato dal Palestinian Museum Us ribaltava il titolo del curatore Pedrosa con uno Stranieri in casa propria (si inaugurerà a Palazzo Mora). Resta il fatto che la Palestina non ha un suo padiglione e, da sempre, propone in Laguna mostre «nomadi».

ANCHE IL MINISTRO Sangiuliano ha respinto al mittente «con la massima determinazione» la proposta di esclusione e i confronti con il Sudafrica, sostenendo che «la cultura deve avvicinare le persone e i popoli». Nel documento che accusa il governo di Israele – sottoscritto da personalità come l’ebrea-americana Nan Goldin, Yto Barrada, la scrittrice Hanna Black, il fotografo ebreo-sudafricano Adam Broomberg, che fa parte dell’organizzazione Artists and Allies of Hebron, il filmmaker Eyal Silvan, l’artista israeliano Oreet Ashery – si riportava infatti alla memoria il caso del Sudafrica, bandito dalla Biennale durante il periodo dell’apartheid. Secondo i firmatari, stride anche il tema scelto: Motherland, proprio mentre muoiono per strada migliaia di bambini e bambine.
Da parte loro, qualche mese fa, Patir, Lapidot e Margalit, artisti e curatori del Padiglione israeliano, hanno spedito un’email a Artnews, dove raccontavano l’angoscia e le vite sconvolte di loro amici e parenti dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, ma dichiaravano anche un immenso dolore «aggravato dalla profonda preoccupazione per l’escalation della crisi umanitaria a Gaza…». Dopo lo shock di quei momenti, però, avevano deciso di andare avanti, aggrappandosi «alla convinzione che ci debba essere uno spazio per la libera espressione e creazione».

IL DISSESTO GEOPOLITICO attuale continua comunque a premere alle porte di Giardini e Arsenale. L’altro caso scottante riguarda il fronte russo-ucraino. Nella dichiarazione della Biennale si sottolinea pure che la Russia non partecipò nel 2022 per decisione autonoma. Gli artisti Alexandra Sukhareva e Kirill Savchenkov (in accordo con il curatore) si ritirarono lasciando chiuso il padiglione. «Non c’è posto per l’arte, quando i civili muoiono sotto i missili», scrissero sui social, mentre da Venezia facevano sapere che avrebbero dato ogni appoggio logistico possibile per la creazione di un padiglione-mostra ucraino e che non ci sarebbe stata nessuna forma di collaborazione con gli aggressori né sarebbero state accettate «delegazioni ufficiali, istituzioni e personalità a qualunque titolo legate al governo russo».
La Russia non ci sarà neanche quest’anno. L’Ucraina invece lavorerà sul tema \guerra ed emigrazione| (in collaborazione con 15 artisti neurodivergenti). Si spera che nel frattempo abbia messo da parte il maxischermo in mondovisione ad uso e consumo propagandistico di Zelensky.
Forse la Biennale e i padiglioni sotto accusa (che potrebbero essere in buona compagnia di altri rappresentanti di paesi dove si violano i diritti umani) dovrebbero aprire i loro «confini», ammettendo al loro interno piattaforme di discussione, public program sulla realtà esplosiva del presente. Inutile voltare la testa dall’altra parte.