Nel febbraio di 55 anni fa i Beatles, ai tempi le celebrità più conosciute del pianeta, decisero di prendersi una vacanza dagli occhi del mondo e si recarono a Rishikesh, città sacra nel nord dell’India ai piedi dell’Himalaya, per dedicarsi a un corso di meditazione trascendentale tenuto dal guru Maharishi Mahesh Yogi. Due anni prima John Lennon aveva detto, tra il preoccupato e lo scherzoso, che i Beatles erano «più popolari di Gesù Cristo» suscitando scalpore, ma azzardando in una battuta quello che, ai quei tempi, in molti pensavano fosse vero. Qualsiasi cosa i Beatles dicessero o facessero entrava istantaneamente nell’immaginario collettivo di una società che stava diventando sempre più globalizzata. Il ritiro in un ashram indiano non poteva essere una semplice pausa di riflessione, divenne un evento epocale e il culmine di una moda che aveva visto un avvicinamento tra la cultura occidentale e anglosassone e la cultura indiana e orientale che prescindesse dai vecchi rapporti coloniali o di sudditanza. Una fascinazione destinata a coinvolgere i movimenti giovanili degli anni Sessanta e che portò le musiche tradizionali del subcontinente a influenzare l’immaginario compositivo del pop. Fu più una moda che una vera a propria volontà di approfondire la complessa e stratificata cultura indiana. Spesso questa curiosità si riassunse in una voglia di esotismo non dissimile dagli atteggiamenti delle generazioni precedenti che avevano celebrato i romanzi di Rudyard Kipling senza uscire da un punto di vista unicamente occidentale. Il ritiro spirituale a Rishikesh, raccontato in un recente documentario di Ajoy Bose (The Beatles and India del 2021) non era stata la prima trasferta indiana dei quattro ragazzi di Liverpool, così come le loro sperimentazioni con le sonorità orientali non furono l’unico o il primo esempio di avvicinamento culturale e contaminazione musicale.

RELAZIONI
Per riannodare le fila di questa relazione, bisogna fare qualche passo indietro. L’India cessò di essere un dominion britannico con l’approvazione della nuova costituzione del 1950. Il subcontinente aveva già però attraversato la sanguinosa partition, la separazione tra l’odierna India, a maggioranza induista, e il Pakistan, che ai tempi includeva anche il Bangladesh, a maggioranza musulmana. Alla divisione fece seguito una feroce pulizia etnica la cui vittima più illustre fu il Mahatma Gandhi, ucciso nel gennaio del 1948 da un estremista hindu contrario alle sue visioni ecumeniche e pacifiste. L’emancipazione dal Raj britannico significava anche una nuova dimensione culturale e un nuovo interesse da parte del mondo occidentale. Uno dei film più popolari del 1951 fu la trasposizione cinematografica del romanzo di Kipling del 1901 Kim, diretto da Victor Saville con Errol Flynn che conservava una visione dell’India legata al colonialismo. Tuttavia nello stesso anno uscì anche Il fiume (The River) di Jean Renoir, una pellicola citata da Martin Scorsese tra i suoi titoli preferiti. Il film venne girato a Calcutta con un taglio a tratti documentaristico. Il punto di vista è sempre occidentale, ma si delinea un più attento sguardo sulla cultura indiana, rappresentando riti, celebrazioni e folklore locale. Venne anche pubblicata una colonna sonora che fu uno dei primi compendi di musica indiana destinati al grande pubblico dell’Occidente.
Era una raccolta di brani registrati tutti in India da artisti locali e che voleva rappresentare la ricchezza dell’espressione melodica del paese. Un Buena Vista Social Club ante litteram. Per realizzare Il fiume, Renoir si fece affiancare da un aspirante regista di Calcutta, Satyajit Ray, destinato a diventare uno dei maggiori autori indiani. Nel 1955 Ray debuttò con Il lamento sul sentiero (Pather Panchali), primo capitolo di una trilogia ispirata al neorealismo italiano nota oggi come la «trilogia di Apu». Il film divenne un fenomeno internazionale non solo attirando l’attenzione del mondo sul cinema d’autore indiano, ma portando alla ribalta anche un intero mondo musicale. La colonna sonora di Pather Panchali era infatti stata composta dal virtuoso del sitar Ravi Shankar che per il commento musicale si era ispirato a diversi raga della tradizione indiana classica. Fu una vera svolta. Shankar iniziò a costruirsi una fama internazionale e nel 1956 fu scritturato dalla Emi per registrare il suo primo album in Occidente, Three Ragas, a cui fece seguito l’anno dopo The Sound of India, inciso a New York per la Columbia. Sempre nel 1957 Shankar tenne poi una lunga tournée europea che lo portò anche in Italia. Per musicisti e artisti americani ed europei si era aperto un nuovo mondo espressivo musicale.

INFLUENZE
I primi a recepire l’influenza dei raga di Shankar nelle proprie composizioni furono i jazzisti. Nel ’57 il clarinettista italoamericano Tony Scott, affiancato dal pianista Bill Evans, incise un tributo al virtuoso indiano intitolato Portrait of Ravi. Nel ’58 il pianista Dave Brubeck, dopo un tour di 80 date in diversi paesi asiatici sostenuto dal Dipartimento di Stato statunitense, diede alle stampe Jazz Impressions of Eurasia in cui nel brano Calcutta Blues piano e batteria imitano rispettivamente i suoni del sitar e del tabla. Anche John Coltrane iniziò a studiare la musica tradizionale, componendo la suite India (una reinvenzione, più che una contaminazione, compare in un’incisione live nell’album Impressions del 1963) e diventando personale amico di Ravi Shankar. Le porte del jazz si erano spalancate fino alla nascita di un filone che venne definito «indo jazz». Ma l’influenza di Shankar stava per farsi sentire anche nel mondo del rock.
Nel 1965 i Beatles girarono con il regista Richard Lester la commedia musicale Help!, veicolo del loro nuovo album dallo stesso titolo. Il film, che voleva ispirarsi alla comicità dei fratelli Marx, era intriso di quell’ingenuo gusto esotico-orientalista ancora carico di approssimazioni e arroganza post coloniale. L’esilissima trama vede infatti i Fab Four vittime di una malefica setta indiana dedita a sacrifici umani a caccia di un anello sacro finito in possesso di Ringo. Inutile dire che si sprecano i luoghi comuni sull’ex colonia tra turbanti, dee dalle molte braccia assetate di sangue e fachiri che dormono sul letto di chiodi. Nulla che non comparisse già nei romanzi di avventura alla Jules Verne o alla Emilio Salgari, ma questa approssimazione culturale finì per diventare un’epifania per i Beatles e in particolare per uno di loro, George Harrison. Il film infatti, che inizia sulle note di un sitar, aveva coinvolto durante le riprese alcuni musicisti tradizionali indiani e quel magico strumento a 18 corde aveva incuriosito il chitarrista del quartetto. Ricorderà George in un’intervista del 1992: «Stavamo aspettando di girare la scena nel ristorante e c’erano alcuni musicisti indiani che suonavano sullo sfondo. Presi in mano il sitar e provai a tenerlo e pensai “ha davvero un suono divertente”». Nella colonna sonora di Help!, peraltro, già Ticket to Ride richiamava le melodie dei raga, ma questa suggestione venne a prendere forma nell’estate di quell’anno quando Harrison incontrò a Beverly Hills David Crosby e Roger McGuinn dei Byrds che avevano scoperto Ravi Shankar, la musica indiana e le sue relazioni con il jazz. Fu così che solo pochi mesi dopo il sitar, suonato approssimativamente dallo stesso Harrison che era ancora alle prime armi, entrò per la prima volta in una canzone rock con il brano Norwegian Wood, inciso dai Beatles per l’album Rubber Soul. Negli stessi mesi sonorità simili compaiono in See my Friends dei Kinks, ispirata da un viaggio di Ray Davies a Bombay. Nell’aprile del 1965 gli Yardbirds, in cui Jeff Beck aveva appena sostituito Eric Clapton, incisero Heart Full of Soul; in sala di registrazione fu effettivamente registrato un intro con il sitar, ma alla fine lo strumento tradizionale venne accantonato e nel brano definitivo è solo la chitarra di Beck a imitare l’armonia indiana.
Nel luglio del ’66 i Beatles sbarcarono in India per la prima volta (nel ’64 erano stati a Calcutta, ma solo per un cambio di aereo). Arrivarono a Delhi di ritorno da un viaggio nelle Filippine, Harrison voleva fare tappa nella capitale per comprare un nuovo sitar. Lo seguirono anche Paul, John e Ringo. Speravano di trovare un po’ di pace, convinti che la loro fama non li avesse preceduti nella ex colonia britannica. Ovviamente si sbagliavano. Si trovarono assediati all’aeroporto da più di 600 fan che si misero a seguire la loro macchina fino all’Oberoi Intercontinental Hotel, dove per un rocambolesco incrocio della storia trovarono un giovane Kabir Bedi (futuro attore di Bollywood e futuro Sandokan nello sceneggiato italiano) a intervistarli per la radio nazionale. Harrison gli anticipò che per l’album che sarebbe uscito da lì a poco (Revolver) una sua canzone (Love You to) era stata arrangiata come una melodia indiana. A quell’epoca tutto quello che i Beatles toccavano diventava pop, si trasformava in mania e tendenza. Il sitar da esotico strumento folklorico divenne un ambito contorno per il musicista pop in cerca di raffinatezze e la musica indiana si apprestava a vivere una consacrazione globale.

NUOVI GUSTI
Quella stessa estate Ravi Shankar era stato ospite della trasmissione Bbc A Whole Scene Going in cui si esploravano i gusti della nuova generazione di giovanissimi. Il tanto atteso incontro tra lui e George Harrison avvenne poco tempo dopo nel giugno del 1967 a Londra a casa di Ayana Deva Angadi, fondatore di un piccolo club di appassionati di musica orientale, l’Asian Music Circle.
Negli Stati Uniti i Byrds, dopo un tour passato ad ascoltare ossessivamente Shankar e Impressions di Coltrane, consacrarono la loro dedizione presentando il loro nuovo singolo Eight Miles High, in cui l’assolo di chitarra richiama lo stile della musica dell’Asia meridionale ma si ricollega anche al jazz. Il loro addetto stampa annunciò la nascita del «raga rock», termine a quanto pare non condiviso da McGuinn e Crosby, ma che prese immediatamente piede.
Già gli scrittori della beat generation a cominciare da Allen Ginsberg avevano aperto la strada verso una riscoperta della cultura orientale. L’India da terra misteriosa e selvaggia dei romanzi avventurosi si era trasformata agli occhi di una nuova generazione in un luogo di ispirazione e di ricerca di purezza spirituale che si contrapponeva alla società caotica e capitalista occidentale. Divenne un elemento centrale, quasi indispensabile, della controcultura degli anni Sessanta e del movimento hippie. Questa appropriazione comportava però distorsioni e approssimazioni diverse, ma non meno macroscopiche, da quelle risalenti alla retorica coloniale vittoriana.
Il sitar iniziò ad essere onnipresente, comparve in Paint it Black dei Rolling Stones, Paper Sun dei Traffic, San Francisco di Scott McKenzie, ma anche in innocue canzoncine pop come Marshmallow Skies di Ricky Nelson e Turn-Down Day dei The Cyrkle. La ditta americana Danelectro lanciò anche un sitar elettrico, una chitarra che emulava il suono del liuto indiano e che fece una delle sue prime apparizioni in You’ll Think of Me di Elvis Presley. La Paul Butterfield Band divagava dall’ortodossia blues nei 13 minuti della contaminata East/West. Jimmy Page si vantava di essere stato il primo musicista inglese ad acquistare un autentico sitar. Si lasciavano ispirare dai raga i Grateful Dead in The Eleven così come i Doors in The End. A New York nasceva il movimento degli Hare Krishna che a San Francisco veniva celebrato in un festival rock in cui oltre ai Grateful Dead comparivano Moby Grape e Janis Joplin. Nel settembre del 1966 il magazine americano Life riconduceva la moda del raga rock alla diffusione di negozi a tema psichedelico che stavano proliferando a San Francisco e New York e, implicitamente, alla cultura della droga.

FAB FOUR A RISHIKESH
Fu in questo clima di grande infatuazione per l’India, non privo di tanta confusione e tantissima maniera, che i Beatles arrivarono a Rishikesh, ospiti di Maharishi Yogi, un guru che promuoveva la meditazione e con cui i quattro di Liverpool avevano frequentato un ritiro a Bangor, in Galles, interrotto poi per l’arrivo della notizia della morte del manager Brian Epstein. Il soggiorno indiano iniziato a metà febbraio del 1968 fu vissuto in maniera molto diversa dai Fab Four che erano accompagnati da mogli, fidanzate e un gruppo eterogeneo di amici (tra cui Mike Love dei Beach Boys e il cantautore Donovan). Ringo Starr scappò dopo sue settimane, Paul McCartney resistette un mese, John e George rimasero fino ad aprile, ma abbandonarono l’ashram delusi dal comportamento di Maharishi da cui si sentirono sfruttati e ingannati. I rapporti con il guru si interruppero. Per George Harrison però l’India non fu un’avventura passeggera, ma rimase costante fonte di ispirazione e di confronto. Nel novembre ’68 venne pubblicato il suo primo lavoro solista, la colonna sonora del film Wonderwall, album strumentale in gran parte un tributo alla musica classica indiana inciso tra Londra e Bombay prima del ritiro a Rishikesh. Il suo sodalizio con Shankar non si interruppe mai e portò all’organizzazione del grande concerto benefico per il Bangladesh del 1971, antesignano di Live Aid, e anche a tre album Shankar Family & Friends (1974), Ravi Shankar’s Music Festival from India (1976) e Chants of India (1997).
La sbornia indiana della fine degli anni Sessanta era inevitabilmente destinata a evaporare, ma certe influenze divennero parte del vocabolario della musica jazz, pop e rock. Gli esempi migliori di contaminazione si hanno con John McLaughlin e i suoi diversi progetti come la Mahavishnu Orchestra (e varie declinazioni) dedite a un free jazz aperto a influenze etniche e come la formazione Shakti votata alla riscoperta della musica classica del subcontinente. Molti elementi orientali confluirono nel prog rock con Tales from Topographic Oceans degli Yes del 1973, ispirato a un saggio dello yogi Paramahansa Yogananda. Nello stesso anno i Genesis entrarono per la prima volta in classifica con I Know What I Like (In Your Wardrobe) di indubbia ispirazione orientale. Nel ’76 fu Marc Bolan dei T.Rex a cimentarsi con il liuto indiano in Chrome Sitar.
In tempi molto più recenti abbiamo visto un ritorno del raga rock con la band londinese dei Kula Shaker che ha riportato in classifica negli anni Novanta brani in cui le chitarre si accompagnano a sitar, tambura e tabla. Strumenti che si ascoltano anche in Tsunami dei Manic Street Preachers (1998) e Who Feels Love? degli Oasis (2000). Gli angloindiani Cornershop hanno conquistato le classifiche di mezzo mondo con la hit Brimful of Asha; più che contaminare il pop anglosassone, il loro è sempre stato un approccio opposto, avendo come base di partenza sia le tradizioni indiane che le melodie ballabili di Bollywood.
In questi tanti tentativi di avvicinare Occidente e Oriente c’è chi ha visto un certo paternalismo post coloniale, chi un sogno transculturale in parte utopico. Ci sono state grandi innovazioni, reali illuminazioni ma anche appropriazioni indebite e ripensamenti. L’impressione è che il dialogo culturale con l’India sia stato assai più di una moda passeggera e sia ancora tutto da approfondire.