La Turchia batte un altro record: è il paese con il più alto numero di giornalisti dietro le sbarre. Cina e Egitto mangiano la polvere: con 153 reporter in carcere Ankara detiene la metà di tutti i giornalisti arrestati nel mondo.

Sono kurdi, sono turchi, sono indipendenti, sono scrittori e analisti, commentatori e fotografi. E sono anche stranieri.

Gabriele Del Grande è l’ultimo di una lunga serie, in un paese che – a seguito della campagna di epurazione giustificata con il tentato golpe del 15 luglio – ha posto sotto il controllo governativo (diretto e indiretto) il 90% dei media, a sentire le opposizioni.

I timori di amici e familiari di Del Grande sono più che giustificati. Basta guardare al caso di Deniz Yucel: il reporter del quotidiano Die Welt, cittadino turco e tedesco, è in prigione da febbraio in isolamento. Rischia 10 anni e mezzo di prigione dietro l’accusa di propaganda a favore del Pkk e incitamento alla violenza.

Una settimana fa Yucel ha sposato la fidanzata nella prigione di Silivri; poche ore dopo il presidente Erdogan ha fatto sapere a Berlino che non sarebbe stato estradato in Germania, come richiesto dal Ministero degli Esteri tedesco che ha potuto fare visita a Yucel solo sette settimane dopo l’arresto.

«È un agente terrorista – ha detto Erdogan – Faremo il necessario, nell’ambito della legge, contro chi agisce come spia e minaccia il nostro paese da Qandil». Un chiaro riferimento alle montagne irachene dove gli uomini del Pkk si sono ritirati quattro anni fa quando partì il breve processo di pace.

Il suo caso è emblematico: ad Ankara non importa nulla dell’Unione Europea. Ha modellato lo Stato intorno al concetto di assedio: i nemici esterni (e interni, i kurdi) mettono a repentaglio la nazione turca, la vogliono indebolire per impedirgli di riprendersi il suo ruolo leader in Medio Oriente. È quello che Erdogan va ripetendo ad ogni piè sospinto.

La retorica dello Stato in pericolo che necessita dell’uomo forte pronto a schiacciare qualsiasi tentativo di indebolimento è alla base dei reati contestati ai 153 giornalisti in prigione da mesi, qualcuno da anni.

L’obiettivo reale è mettere sotto silenzio le poche voci critiche rimaste, lo strumento è la galera. Tanta galera: una settimana fa il procuratore di Istanbul ha chiesto tre ergastoli a testa per 16 dipendenti del gruppo editoriale Zaman.

Tra loro la nota commentatrice (forse la più famosa in Turchia) Nazli Ilicak, il giornalista e scrittore pluripremiato Ahmet Altan e il professore di economia e analista Mehmet Altan. Tre nomi noti del panorama mediatico turco, accusati di voler rovesciare l’ordine costituito, il governo e il parlamento tramite il sostegno alla rete dell’imam Gülen, considerato la mente dietro il fallito putsch.

Tre ergastoli senza che prove effettive siano mai state presentate all’opinione pubblica, una mannaia contro la libertà di stampa che dovrebbe sollevare qualcosa di più di critiche velate da parte di Bruxelles, impegnata a stringere accordi miliardari anti-rifugiati con il presidente Erdogan. Ovviamente il gruppo Zaman non è il solo.

La stessa procura ha chiesto pene da 15 a 43 anni per 19 giornalisti del quotidiano di opposizione Cumhuriyet, ormai chiuso. Celebri furono i casi dell’ex direttore Dundar e il caporedattore Gul condannati in primo grado a cinque anni per il famoso reportage che svelava i legami dei servizi segreti turchi con gruppi islamisti in Siria.

I capofila della devastazione del giornale, ora tocca al resto della redazione, al direttore Sabuncu, allo scrittore Sik, al vignettista Kart, all’editore Atalay.

I 19 giornalisti sono accusati contemporaneamente di sostegno all’islamista nazionalista Gülen e di appoggio al movimento di liberazione kurdo Pkk. Due soggetti lontanissimi tra loro, ideologicamente ai poli opposti. Ma che finiscono in un unico calderone, quello del terrorismo contro lo Stato.

Non a caso la procura parla di «tattiche di guerra asimmetrica, intense operazioni di percezione che hanno preso di mira il governo e il presidente».

Alla fine non resta nulla, il deserto dell’informazione: con quasi 200 siti, agenzie, quotidiani, tv, radio chiusi per ordine governativo (per lo più kurdi) e 153 reporter in carcere, non stupiscono le parole dell’Osce sulla campagna referendaria: «Il fronte del sì ha dominato la copertura dei media».