Nelle memorie di quanti l’hanno conosciuto e frequentato da vicino, viene spesso citato un aneddoto che riguarda mullah Omar, lo storico leader dei Talebani. Anche quando era il capo indiscusso del movimento, la Guida dei fedeli e il reggente dell’Emirato islamico d’Afghanistan, perfino quando le sorti della popolazione dipendevano da una sua decisione o da un semplice capriccio, si dice che lui, di capricci, non ne avesse alcuno.

Nessuna tentazione. Nessun desiderio nascosto o inconfessabile. Nessuna debolezza. Tranne una: la passione per i melograni. Rigorosamente della zona di Kandahar, la provincia meridionale del Paese, storica roccaforte dei «turbanti neri», famosa in tutto l’Afghanistan per i succosi e dolcissimi frutti rossi. Mullah Omar ne andava pazzo. E non lo nascondeva. Per il resto, dicono i suoi sodali di un tempo in tono apologetico, «mangiava solo il necessario». Per far cosa? «Per condurre il jihad».

Forse l’aneddoto è vero. Forse no. Potrebbe essere una delle tante storielle fatte circolare ad arte dagli adulatori, per mostrare quanto pura fosse l’intenzione del leader supremo. Quanto integro fosse l’uomo. Quanto rigorosa la sua convinzione che tutto, anche il cibo, dovesse essere funzionale allo scopo ultimo: il jihad. Prima per purificare la nazione afghana, poi contro le truppe occupanti straniere e il governo illegittimo di Kabul. Ma nella storiella c’è anche un aspetto che eccede il pretesto di propaganda, la strategia comunicativa.

C’è un pezzo di cultura. Perché la scelta del melograno, e dei melograni di Kandahar, rimanda all’identità culinaria dei kandaharì, fieri di quel frutto quanto legati al pashtunwali, il codice d’onore della comunità pashtun da cui proviene la vecchia guardia del movimento talebano. Detto in altri termini, l’aneddoto serviva a tracciare un perimetro sociale e culturale. A consolidare un’identità comune.

A dimostrare che mullah Omar attingeva alla stessa matrice della popolazione, benché fosse la Guida dei fedeli, investito da Allah dell’autorità suprema. Un melograno spaccato in due, con i semi rossi pieni di succo dolce e salutare, valeva più di mille parole, più dei trattati teologici. Era la prova che lui era come gli altri. Che gli altri erano come lui. Perché uniti da un’identità comune. Anche culinaria.

Oggi l’equivalente dell’aneddoto sul mullah Omar – morto e defunto e sostituito dal clerico Haibatullah Akhundzada – non passa più di bocca in bocca, di villaggio in villaggio, da Kandahar a Kabul.
Ma viaggia su Internet. Non si tratta più di parole messe insieme coerentemente, dentro una cornice narrativa persuasiva e convincente, di storielle ripetute nelle chaikhanà, le polverose e affollate sale da tè, ma si tratta di immagini.

Le fotografie viaggiano su Twitter, Instagram, Whatsapp, Facebook. Le percepiamo come immagini singole, dal significato auto-evidente, semanticamente chiuse in sé stesse. Ma fanno parte anch’esse di una cornice narrativa più ampia. Come nel caso della storiella dei melograni di mullah Omar, hanno sì un significato strumentale, di propaganda, ma valgono anche come veri e propri marcatori identitari. Ecco qualche esempio, tra i più recenti, selezionati dalla gran mole di materiali audiovisivi prodotti dai militanti jihadisti in giro per il mondo.

La prima foto scelta proviene dal Khorasan, un’area che storicamente include il territorio dell’attuale Afghanistan, le zone orientali dell’Iran, oltre a pozioni significative di Uzbekistan, Turkmenistan e Tajikistan. È circolata sui canali riconducibili alla «provincia» locale dello Stato islamico, che da qualche anno cerca di mettere radici – con difficoltà – in Afghanistan e Pakistan.

Vi compare un uomo, di spalle, che tende la mano per raccogliere delle mele da un albero. Sullo sfondo, un frutteto rigoglioso e una catasta di mele già raccolte.

In primo piano, sul braccio dell’uomo, appare la cintola su cui – come è portato a ritenere chiunque veda l’immagine – è riposta un’arma. Il messaggio, sembra dirci la foto, è che lo Stato islamico pensa al futuro dei suoi figli, si prende cura della terra, sa come farla fruttare. Ma non rinuncia alle armi, per costruire quel futuro e proteggerlo dai nemici.

Dalla parte orientale della città siriana di Hama, 70 chilometri a nord di Homs, proviene un’altra fotografia significativa. Seduti in terra, ci sono alcuni leader della tribù dei Mawali. Disposti in circolo, attingono a grandi vassoi circolari che straboccano di pollo e patate. Con loro, mangiano alcuni militanti di Hayat Tahrir al-Sham, la coalizione che include diversi gruppi jihadisti-salafiti, ultima evoluzione di quello che era il fronte al-Nusra, la branca di al-Qaeda in Siria.

Il pasto comune, qui, serve a dimostrare che i barbuti sono benvoluti, che sanno condividere l’elemento più intimo e importante – il cibo, l’alimentazione – con chi ne condivide i principi e gli obiettivi ultimi. Dalla provincia orientale siriana di Deir Ezzor, ampiamente controllata dallo Stato islamico, nelle settimane scorse giungevano invece centinaia di foto di militanti barbuti che preparavano il cibo per l’Eid al-Fitr, il momento in cui si celebra la fine del Ramadan. In una di queste foto un uomo ripreso di profilo – barba scura, camicia a maniche lunghe, sguardo concentrato e allegro – è intento a tagliare un’anguria.

Dietro di lui, sullo sfondo, ci sono due casse metalliche, di chiara fabbricazione militare. Sopra è ben visibile un kalashnikov. Anche qui, il messaggio è multiplo: c’è l’ordinarietà della vita al fronte, i piccoli gesti quotidiani, il senso di comunità e di abnegazione verso gli altri, la solidarietà con i membri del gruppo.

Ma anche l’ostilità verso chi ne minaccia l’esistenza o la sopravvivenza. L’elenco potrebbe proseguire a lungo. Ma al di là dei diversi contesti, e dei diversi obiettivi militari dei tanti gruppi jihadisti, rimangono alcuni punti comuni. Il primo, più evidente, è che l’identità dei gruppi jihadisti passa anche attraverso la costruzione di una narrazione condivisa sul cibo, sul modo in cui viene raccolto, preparato, consumato, condiviso. Ce ne interessiamo poco, perché appaiono più interessanti le storie frivole – su cui è specializzata la stampa inglese – sui foreign fighters che rimpiangono il junk food di casa, il cibo spazzatura delle grandi catene alimentari. Le foto che formano la grande narrazione jihadista sul cibo raccontano invece un’altra storia, evidenziando un secondo punto comune, che facciamo fatica a comprendere: ogni gruppo jihadista non si nutre solo di bombe e dottrina, ma di una vera e propria cultura estetica.

È fatta di pratiche sociali, di prodotti materiali e simbolici non necessariamente funzionali alla battaglia, come poesie, letteratura, musica, iconografia, cinematografia. E cibo. É una cultura condivisa da una comunità epistemica frammentata e minoritaria ma autenticamente globale, spiegano gli autori dei saggi inclusi in Jihadi Culture. The Art and Social Practises of Militant Islamists. Appena pubblicato dalla Cambridge University Press e curato dal ricercatore Thomas Hegghammer, il libro è una lettura utile. Soprattutto per chi si ostina a pensare che il salafismo jihadista sia soltanto un fenomeno militare.