In Europa siamo da tempo assuefatti a vedere le forze socialdemocratiche svolgere con il massimo zelo il lavoro della destra. La Spd di Schroeder fu addirittura tra i pionieri di questo corso politico. Tutti, da Londra a Berlino, da Madrid a Parigi hanno pagato salato questa scelta o si accingono a farlo come i socialisti francesi. Quello a cui non eravamo invece abituati è vedere una forza conservatrice fare il lavoro che spetterebbe ai partiti «progressisti», chiamiamoli così, con un termine desueto e ambiguo, in mancanza di meglio.

È Angela Merkel ad averci offerto più volte questo spettacolo inconsueto nel corso della cosiddetta crisi dei migranti. Lo spettacolo di una difesa intransigente dello stato di diritto e delle garanzie costituzionali anche a costo di uno scontro virulento con gli alleati bavaresi della Csu e con settori del suo stesso partito.

Intendiamoci, la Germania e il suo attuale governo, sono saldamente ancorati ai più rigidi principi del liberismo e della competitività organizzata, nel quadro europeo, a proprio favore. La crisi greca e la linea di condotta di Berlino nell’Unione non hanno lasciato alcun dubbio. Ma un semplice, sommario confronto con la Francia di Hollande e Valls (sia pure colpita dal terrorismo molto più duramente della Repubblica federale), dimostra senza equivoci su quale riva del Reno i principi democratici godano del maggiore rispetto.

In Francia, lo stato di emergenza a oltranza e la creazione di una «guardia nazionale» (estensione di una riserva già esistente) da impiegare nella lotta contro il terrore, nonché una impopolare riforma del lavoro imposta senza voto parlamentare. In Germania, l’affinamento e il potenziamento di strumenti di controllo e repressione già esistenti entro i limiti definiti dallo stato di diritto, riaffermazione del principio costituzionale del diritto d’asilo e, sul fronte economico, l’introduzione del salario minimo. Il discorso con il quale la Cancelliera ha risposto ai recenti attacchi contro persone inermi sul territorio tedesco (due dei quali insidiosamente ad opera di richiedenti asilo e dunque facilmente strumentalizzabili) è stato lucido, pacato e senza alcun cedimento alla demagogia della paura.

«Ce la possiamo fare» ha ripetuto ancora una volta Angela Merkel. E se lo può permettere. Per due ragioni ben definite. La prima è il successo economico tedesco, tutto inscritto in un quadro di «vantaggio nazionale», difeso strenuamente nonostante gli squilibri e l’instabilità che produceva e produce in gran parte del Vecchio continente e che costituisce il solido fondamento dell’egemonia tedesca sull’Europa. Su questa base il governo di Berlino si è conquistato un consenso e una fiducia che la propaganda xenofoba riesce appena a rosicchiare. La destra dell’Afd fatica a convincere un numero sufficiente di cittadini (per non parlare di una imprenditoria famelica di immigrati) che gli interessi nazionali e la rendita dei risparmiatori non siano adeguatamente difesi dalla Cdu a guida Merkel.

La seconda ragione è che nella Repubblica federale gli anticorpi contro l’estremismo di destra sono efficienti e largamente diffusi. Per la maggior parte dei tedeschi la destra estrema significa avventura e instabilità, nonché un insostenibile danno all’immagine della Germania. Tanto più da quando la caduta del muro e la dissoluzione del blocco sovietico hanno mandato in soffitta la funzione dell’anticomunismo. Il moltiplicarsi delle aggressioni razziste, se pur preoccupante, cambia poco a questo stato di fatto.

Queste circostanze fanno, al momento, di Angela Merkel l’unico leader degno di questo nome in Europa. Hollande agita la sciabola al minimo della popolarità e senza riuscire minimamente ad arginare le destre, massacrando, intanto, con la «loi travail» il mondo del lavoro. Riajoy in Spagna, miracolosamente sopravvissuto agli scandali, si accinge a varare un traballante governo di minoranza, Cameron si è incredibilmente suicidato con il referendum, l’Austria è servita alla tavola della destra xenofoba e i paesi dell’est stanno rapidamente passando, uno dopo l’altro, dalla condizione postcomunista a quella postdemocratica. Quanto a Matteo Renzi durerà fino a quando l’onda della chiacchiera e dei dati fasulli non si spegnerà in risacca.

Per una qualsiasi politica di sinistra in Europa il fatto che il solido regno ordoliberale di Angela Merkel sia al tempo stesso un baluardo dello stato di diritto (che pur sappiamo non essere un modello di equità) e dei più generali principi democratici, costituisce un gigantesco ostacolo. La rende in un certo senso superflua se non saprà decisamente organizzarsi contro le diseguaglianze e l’autoritarismo che caratterizzano l’«economia sociale di mercato» alla tedesca. Ma senza strizzare l’occhio alla guerra tra poveri che alimenta la xenofobia o agli interessi nazionali «calpestati dallo straniero». Perché, in questo caso, meglio Angela Merkel.