La musica ha rivestito un ruolo importante nella vita di Angela Davis fin da quando venne espulsa dall’Università dove insegnava a causa della sua militanza comunista e si trovò incarcerata ingiustamente. Il movimento d’opinione mondiale che ne chiese la liberazione poté contare su un imponente numero di canzoni. Difficile farsi venire in mente altri esempi di rivoluzionari ai quali è stata dedicata una canzone da Rolling Stones, John Lennon e Yoko Ono, Bayeté con un pezzo rieseguito dai Santana, Phil Ranelin e… il Quartetto Cetra, grazie alla sensibilità politica di uno dei membri, Virgilio Savona. Angela Davis, oltre a essere tuttora un’attivista black e un punto di riferimento per il femminismo mondiale, come studiosa in Blues e femminismo nero (Alegre, 2022, pp. 320, 20 euro) procede a ritroso fino alle sorgenti della musica del suo popolo.

Il libro di Angela Davis «Blues e femminismo nero» (Alegre, 2022, pp. 320, 20 euro)

Il volume, ora opportunamente tradotto, risale a fine anni Novanta: l’approccio a un genere musicale abbondantemente storicizzato è fresco e si sente una certa urgenza militante. Se la donna nera subisce una parziale invisibilità nel movimento femminista le cantanti blues sono doppiamente invisibili e Angela Davis corregge questa stortura. Per capire le eroine che racconta si deve risalire agli albori discografici, al brano Crazy Blues (1920) di Perry Bradford. La schietta interpretazione vocale è quella di Mamie Smith, blueswoman che si trova, nel prologo dei ruggenti anni Venti, al secondo disco per l’etichetta Okeh.

Ancora oggi si rimane colpiti dalla prepotente voce di Mamie che buca la ceralacca. Crazy Blues non fu solo il primo blues «autentico» inciso ma divenne un successo da 75mila copie nel primo mese di circolazione. Sulle varie novità stilistiche del brano dominava il testo che formalmente parlava di un amore finito, ammiccando alle rivolte razziali del 1919. Sul finale Mamie urlava a squarciagola che se le cose fossero andate male si sarebbe sballata, avrebbe preso una pistola e fatto fuori un poliziotto. Centodue anni dopo questo primo urlo blues le tensioni razziali cantate dall’hip hop non paiono così diverse. Da questo boom artistico e commerciale parte l’ascesa del blues femminile, un genere che vede esordire Bessie Smith e Gertrude «Ma» Rainey, rispettivamente nel 1923 e 1926. Il debutto di questo blues – urbano e femminile – precedette il country blues, un genere maschile, campagnolo, che solo dopo la metà degli anni Venti sarebbe entrato negli studi di incisione. Bessie Smith, Ma Rainey: i riflettori illuminano un blues interessante nelle musiche ma a dir poco straordinario nei testi. Si rimane basiti nel leggere quello che novanta, cento anni fa queste cantanti afroamericane si permettevano di declamare con una libertà espressiva unica.

La coincidenza temporale tra il blues classico e il movimento culturale dell’Harlem Renaissance ci potrebbe far pensare che quest’ultimo parteggiasse per questa musica «popolare» e invece non fu così. Il rinascimento nero aveva l’intento di nobilitare e raffinare. La sessualità e i racconti grezzi di Bessie Smith o Ida Cox incarnavano i valori di una working class che non era quella che volevano dipingere gli esponenti del rinascimento nero, con la lodevole eccezione del poeta Langston Hughes. Analizzando l’opera di Bessie Smith, Ma Rainey o Billie Holiday, Angela Davis pensava di trovare una forte coscienza razziale e invece ha constatato l’emergere di un proto-femminismo che si staglia sullo sfondo della vicenda sociale delle classi povere nere. Così il femminismo può riappropriarsi di una significativa eredità «blues».

SPAZIO CULTURALE

Il primo capitolo, I Used to Be Your Sweet Mama tratta di sessualità e vita domestica rileggendo i testi di questi pionieristici blues. Si parla di matrimonio, lavoro, donne che viaggiano, rapporti con l’altro sesso, violenza domestica. «La mia tesi è che il blues femminile abbia fornito alle donne nere della classe lavoratrice uno spazio culturale in cui costruire comunità libere dalla coercizione dei concetti borghesi su purezza sessuale e “vera femminilità”», scrive Angela Davis. L’accettazione sociale che tradizionalmente è passata per la rispettabilità sessuale e la mortificazione di ogni alternativa si trova davanti a un oggetto nuovo: il blues. Davis polemizza con alcuni accreditati storici del blues come Samuel Charters e Paul Oliver, tacciati di esercitare il mestiere con lo sguardo del maschio bianco, un modo di raccontare i fatti che sottovaluta gli aspetti protestatari di questa musica non espressamente dichiarati o codificati dalla cultura ufficiale. Per questo motivo non entra nei radar degli storici del blues la protesta contro il maschilismo della società nera coeva che emerge nelle canzoni di Bessie Smith o di Ma Rainey. Angela Davis legge il blues come una rappresentazione estetica di un problema sociale complesso e quindi la riduzione a fenomeno di blanda protesta, – così spesso è stato interpretato dai critici per i testi – non rende giustizia al ruolo avuto nell’articolare pubblicamente un pensiero che non si può esprimere in altre forme di lotta.

Prendiamo il tema classico della prigione: anche il blues al femminile ne parla copiosamente. Davis si sofferma a commentare Chain Gang Blues di Ma Rainey. La canzone narra di una donna che per un reato minore viene condannata ai lavori forzati. A leggere in profondità questo blues racconta del sistema di «affitto dei detenuti» in voga in molti stati sudisti, un traffico che consentì di reintrodurre il lavoro schiavistico dopo la sua abolizione. Con il compromesso Hayes-Rutherford (1877) i diritti civili ottenuti con la guerra civile erano stati congelati e gli stati del sud avevano promulgato i cosiddetti Black Codes che prevedevano i lavori forzati e l’affitto dei detenuti. Un sistema che proseguì nel Novecento e che era ancora più brutale della schiavitù: il padrone della piantagione aveva a cuore la salute dei neri in quanto beni di sua proprietà; l’imprenditore che affittava detenuti, spesso incarcerati ingiustamente, poteva sfruttarli a sangue senza patemi.

ESTETICA BLACK

L’estetica nera che emerge nei blues di Bessie Smith o Ma Rainey parla anche di riti magici, filtri d’amore, dell’uso di erbe e polveri per generare incantesimi. Spesso dismessi dalla critica come folklore superstizioso dei ceti neri bassi sono invece cantati seriamente da Bessie Smith in brani come Mama’s Got the Blues, Yodeling Blues, Gin House Blues, Lady Luck Blues… Lo stesso approccio alle pratiche voodoo venne seguito dalla studiosa e romanziera Zora Neale Hurston. Sia la cantante sia la scrittrice sono state a lungo ignorate dall’estetica dominante, nel tentativo di nobilitare la cultura afroamericana delegittimandone gli aspetti meno occidentali. In nome di una presunta nobiltà, Zora Neale Hurston e Bessie Smith sono state emarginate dalla critica letteraria, universitaria, musicale e il loro recupero è iniziato tardi, con «black studies» e «women’s studies». «È proprio in un momento come quello odierno, in cui le questioni di razza, classe, genere e sessualità vengono messe continuamente in discussione nella nostra società, che un’artista come Bessie Smith può ricevere ciò che le spetta». Il forte impatto sulla «coscienza collettiva» che ebbe, non emerge se guardiamo alla storia accademica del jazz: il blues classico è un capitoletto stantio relegato alle pagine iniziali dei manuali. Siamo sicuri che dovrebbe essere così? In questo sovvertimento della storia Angela Davis getta nella mischia anche la celebre canzone Strange Fruit di Billie Holiday. Invece di lavorare sul testo – arcinoto – del brano, la scrittrice si concentra su un aspetto inedito: molta memorialistica accredita la versione di una Holiday «ignorante» che avrebbe cantato il brano solo grazie alla richiesta di amici e collaboratori bianchi liberal. Sminuire la scelta politica di Billie significa minarne l’importanza culturale e quella di questo brano nella cultura americana è immensa. Si veda il recente film diretto da Lee Daniels Gli Stati Uniti contro Billie Holiday (2021). Davis fa un lavoro unico e riesce, anche meglio del film, a restituirci un’artista consapevole delle proprie scelte.

Bessie, Gertrude, Billie: «È possibile interpretare il lavoro di queste tre insigni artiste del passato afroamericano come un contributo alla formazione di eredità altre del femminismo: eredità blues, eredità nera, working class». Non solo: possiamo anche riascoltarne i brani, gemme spesso dimenticate.