Andrea Ciarini, professore di sociologia economica alla Sapienza di Roma e membro della commissione sul reddito di cittadinanza presieduto da Chiara Saraceno, la manovra è stata votata con una stretta al reddito di cittadinanza. Il ministro del lavoro Orlando ha detto che ci sarebbe stato un confronto con le forze politiche. Quali risultati ha portato?

Andrea Ciarini

Mi sembra che sia stata fatta una mediazione tra due posizioni: da un lato il Pd e i Cinque Stelle che hanno ottenuto il rifinanziamento della misura, dall’altro lato la Lega e Italia Viva hanno ottenuto la stretta workfarista sulla misura che ha accresciuto un approccio punitivo nei confronti dei suoi beneficiari. È tornata la retorica sul povero come «scroccone» che preferisce fruire di un sussidio invece di trovarsi un lavoro. È la retorica della Thatcher e riecheggia una concezione ottocentesca. Il povero deve dimostrare di essere meritevole molto più di quanto si chiede ad altri cittadini beneficiari di misure sociali. Spiace che si sia arrivati a parlare di «reddito di criminalità» o di «metadone di stato». Tutto questo ha avuto un peso nella mediazione politica che non ha portato a un intervento migliorativo ma a introdurre forti dosi di condizionalità che vanno in una direzione diametralmente opposta rispetto a quanto abbiamo indicato.

Qual è l’obiettivo delle vostre 10 proposte di modifica?
Intervenire per migliorare alcune delle criticità che erano emerse nel corso dell’implementazione del reddito di cittadinanza, senza tuttavia mettere in discussione una misura che ha dato un contributo fondamentale al contrasto della povertà come oramai tutti i dati certificano. Su molti dei problemi aperti si è scelto invece o di non intervenire o addirittura peggiorare, come è dal mio punto di vista per il décalage, un meccanismo che punisce dopo sei mesi chi non trova il lavoro anche se però sappiamo che sono in pochi a ricevere un’offerta dai centri per l’impiego. Questi meccanismi colpiscono fasce di popolazione che sono strutturalmente ai margini del mercato del lavoro e hanno poche possibilità di rientrarci. Probabilmente è anche un intervento mirato a ridurre indirettamente la spesa per il reddito.

Avete proposto di cambiare la scala di equivalenza che penalizza le famiglie più numerose e più povere. È stata accolta?
No. Penso abbia influito l’introduzione dell’assegno unico per i figli che dovrebbe agire anche in questa direzione. Ma è un modo di procedere di tipo categoriale, sarebbe stata preferibile un’integrazione, e invece si è proceduto per compartimenti stagni.

E la proposta di abbassare da 10 a 5 anni il tetto oltre il quale i cittadini extracomunitari, i più poveri tra i poveri, possono chiedere il reddito?
Nemmeno questa. Avrebbe avuto un costo, ma al di là di questo ho l’impressione che su questo abbia influito l’opposizione della Lega che mai l’avrebbe accettata.

Sembra che lo stesso Draghi abbia trovato assurda la norma che scoraggia dall’accettare un lavoro regolare, anche parziale, perché per ogni euro guadagnato vengono tolti prima 80 centesimi e poi tutto. Non è una norma che contrasta con l’idea per cui il reddito dovrebbe servire a trovare un lavoro?
Sì. è un meccanismo fortemente disincentivante al ritorno al lavoro e riduce la convenienza a cumulare sussidio e reddito da lavoro. Noi abbiamo proposto di portare l’aliquota marginale al 60%, incentivando questa combinazione come avviene peraltro in molti paesi europei. Avrebbe avuto un costo ma avrebbe anche generato un ritorno in termini di nuova occupazione e di fuoriuscita dal lavoro irregolare.

Uno degli aspetti più inquietanti di questo progetto di Workfare sono i progetti utili per la comunità (puc): fino a 16 ore a settimana di lavoro gratuito per chi prende il reddito. Saranno obbligatori per tutti i percettori?
Teoricamente lo sono ma nella pratica molte amministrazioni hanno fatto fatica a gestire la complessità organizzativa di questo lavoro gratuito nei servizi di comunità. Non c’è paese in Europa che abbia concepito questa condizione per tutti i beneficiari dei sussidi. Questo tipo di attività fa parte di percorsi di inserimento protetto per le categorie più fragili, ma in Italia si è scelta la strada opposta: renderli obbligatori come una delle condizioni a cui sottostare per percepire il sussidio. Bisogna fare tutto il possibile per portare le persone al lavoro vero, non in quello gratuito, ben sapendo però che parliamo di persone con difficoltà e fragilità tali da non rendere automatico il binomio sussidio-lavoro. Dobbiamo capire che c’è una quota strutturale, quasi incomprimibile, di persone a rischio povertà che non possono che essere sostenute economicamente. E una quota minoritaria di beneficiari che possono essere attivati ma che hanno serie difficoltà a rientrare nel mercato del lavoro, al di là e indipendentemente da punizioni e sanzioni. Non è con queste che si crea lavoro. Il lavoro lo si crea con gli investimenti e con politiche che mettano a tema esplicitamente la creazione di lavoro.

Ritiene che sia state superate che ostacolano l’avvio delle politiche attive del lavoro?
A mio avviso queste politiche sono un’assoluta priorità per l’Italia. Molte risorse sono state stanziate con il programma «Gol». Non basta però spendere risorse per farle funzionare. Il tema oggi non è semplicemente fare incontrare domanda e offerta del lavoro, il vero tema è come si crea lavoro per beneficiari di sussidi e non, a partire dai bisogni sociali, culturali, ambientali che possono produrre domanda di lavoro aggiuntiva se inseriti in una strategia di creazione diretta di nuova occupazione. Tutto questo non lo si può fare solo attraverso stage e tirocini o le classiche politiche attive di incontro tra domanda e offerta. Bisogna incorporare la creazione di lavoro nelle politiche attive. Sussidi e creazione diretta di lavoro sono poli che vanno integrati in questa prospettiva.

Come continuerà il lavoro della commissione?
Il nostro mandato è valutare una misura che ha funzionato perlomeno nell’arginare un’emergenza sociale che esisteva già prima della pandemia e fornire indicazioni per superare le sue criticità. Il primo rapporto ha dato gli strumenti per farlo