Lo scrisse Haskell che una mostra di architettura incontra oggettive difficoltà dall’oggetto assente del suo discorso, altrettante si presentano in un’esposizione dedicata a uno storico dell’architettura. La rassegna su André Corboz (Ginevra 1928 – Collonge-Bellerive 2012) al Teatro dell’architettura di Mendrisio dal titolo Il territorio come palinsesto/ L’eredità di André Corboz (fino al 5 febbraio), rivela tutti i vincoli di una mostra didattica, pur necessaria per la presenza dal 2014 dell’archivio dello storico ginevrino presso la Biblioteca dell’accademia di architettura.
Dispiace che non si sia reso disponibile un catalogo dove magari trovare un’antologia dei suoi scritti. Il visitatore avrebbe compreso meglio lo sfaccettato lavoro di Corboz, la qualità della sua scrittura chiara e incisiva, la sua «eredità» proveniente dal periodo felice di ricerche, tra i ’60 e i ’90, in cui insieme a una rete di colleghi e amici, si dedicò con curiosità onnivora ai temi dell’analisi urbana, al restauro dei monumenti e allo studio della città europea del tardo capitalismo indagata nei vari stadi della storia dell’urbanistica inglobando la semiotica (Eco, ma anche Barthes), l’antropologia e la sociologia.

LA MOSTRA SUDDIVISA dai curatori, André Bideau e Sonja Hildebrand, in due sezioni corrispondenti ai piani del «Teatro» affronta nella prima, dal titolo «Come leggere il territorio», il lascito teorico di Corboz. Intento a dilatare le sue capacità di osservazione ai fenomeni urbani contemporanei, dall’espansione incontrollata dello sprawl alla mercificazione della città che si sarebbe rilevata di là a qualche decennio, sotto le forme estreme e ciniche della gentrificazione, guarda il territorio come spazio in cui si stratificano i segni che nel tempo compongono il «palinsesto» nel quale trascorre il nostro vivere quotidiano.
Il suo racconto sulla città inizia con i saggi sull’invention nel tardo settecento di Carouge, un paese poco distante da Ginevra, e su Canaletto con la sua Venezia immaginaria (tesi del suo dottorato) entrambi pubblicati nel 1968. Prosegue, negli anni del suo insegnamento al Politecnico di Zurigo (1980/1993) con l’analisi dell’urbanizzazione svizzera inoltrandosi in occasione del suo soggiorno statunitense tra il 1986 e il 1987, nell’«utopia realizzata» della griglia territoriale di Thomas Jefferson con la quale l’ideologia antiurbana ed egualitaria si attua nella pianificazione.
Dall’insieme di queste indagini scaturirà per Corboz la convinzione che il territorio sul quale per due secoli si ebbe «come unica ricetta la tabula rasa», fosse innanzitutto il «risultato di una lentissima stratificazione che occorre conoscere per intervenire».

QUESTA ATTENZIONE ai processi che decidono la sedimentazione di tracce sul territorio e che comprendono la realtà urbana, sono studiati da Corboz con metodo antidogmatico e al di fuori delle tendenze culturali del momento come il Postmodernismo, il quale occupa la «terza fase» della sua periodizzazione della pianificazione: dopo quella «accanto alla città o fuori la città» (Howard, Sitte) e di quella «sostitutiva della città esistente» (Le Corbusier, Wright) ma precedente all’«urbanistica del territorio urbanizzato nella sua totalità». Quest’ultima, la «quarta fase», che Corboz intravvide solo all’inizio non riguardava più le città in senso proprio, ma «regioni urbanizzate che si organizzano a catena», come accade negli Stati Uniti dove «la vera città è il suo suburbio».
Nella seconda sezione («Produzione dei saperi e storiografia»), l’opera dello storico ginevrino è illustrata con riferimento alle personalità e ai temi che più lo intrigarono: da un lato, la figura di Bruno Zevi; dall’altro, l’interesse per l’«immaginario urbano» prodotto dall’Illuminismo quale periodo d’incubazione della modernità. Corboz è qui un sostenitore di quel «nomade disciplinare» che incarna lui stesso. Con la scelta dei suoi campi d’indagine chiarì che non esiste un metodo sicuro al quale affidarsi, ma solo l’avanzare interagente dello storico verso l’oggetto della sua ricerca dove il fortuito (serendipity) ha il medesimo valore di una «ipotesi preconcetta», fino a quando la «scoperta» non è sottoposta a verifica, poiché nel lavoro dello storico «non ci sono strade da seguire, ma solo mete da raggiungere».