«Non abbiamo resistito sei anni per salvare una legislatura», spiegava ieri mattina Carles Puigdemont, l’ex presidente della Generalitat dell’autunno catalano del 2017, da un albergo di Bruxelles, nella conferenza convocata per dichiarare le esigenze di Junts per Catalunya nella trattativa col Psoe per sostenere la candidatura di Pedro Sánchez a presidente di un governo di coalizione progressista. L’alternativa che le elezioni del 23 luglio hanno consegnato è quella “tra blocco o patto”, «non un patto qualsiasi, ma con Junts, una formazione che si è cercato di mettere da parte». La distanza è grande e la fiducia minima, ma «se c’è un accordo dev’essere storico», ha detto il leader indipendentista. Snocciolando perciò le quattro condizioni propedeutiche al negoziato: riconoscimento e legittimità dell’indipendentismo, abbandono definitivo e completo della repressione, creazione di un meccanismo di garanzia e verifica degli accordi, riferimento alla legislazione internazionale in materia di diritti umani e libertà fondamentali.

Sono pre-condizioni per avviare il dialogo, il cui approdo definitivo, riservato a una fase successiva, sarebbe nel riconoscimento da parte dello Stato del principio di autodeterminazione del popolo catalano e perciò nella celebrazione pattuita di un referendum sull’indipendenza. Condizioni tutte compatibili con la Costituzione, sottolinea Puigdemont, da esigere nel periodo precedente la sessione d’investitura di Sánchez. L’amnistia, necessaria per chiudere la fase di giudizializzazione del conflitto catalano, dovrebbe perciò essere approvata dal parlamento in meno di tre mesi, obiettivo impegnativo ma non impossibile.

Per il governo spagnolo, gli ha risposto la portavoce, la ministra di politica territoriale Isabel Rodríguez: «Le nostre posizioni sono agli antipodi. Ma abbiamo uno strumento che è il dialogo, un quadro di riferimento che è la Costituzione e un obiettivo che è la convivenza». Il giorno prima, Yolanda Díaz, ministra del lavoro e vicepresidente del governo, si era recata a Bruxelles per incontrare Puigdemont, la prima visita ufficiale di un rappresentante del governo spagnolo all’ex capo del governo catalano, esiliatosi sei anni fa nella capitale europea. Anche se ha precisato di esserci andata come leader di Sumar e la parte socialista del governo ha confermato la propria estraneità all’avvenimento. È possibile che quell’incontro alla vigilia della conferenza abbia appianato alcune asprezze nel ragionamento del leader indipendentista. Ma ora dipende dalla volontà politica dei socialisti e da quanto Sánchez riuscirà a tenere il controllo del suo partito.

Finora solo l’ex presidente Felipe González si è scagliato contro l’amnistia, che è invece apparsa ineludibile ai vertici del Psoe per ottenere il consenso di Junts, tanto che si starebbero già esaminando alcune soluzioni tecniche. D’altronde, le elezioni di luglio hanno rimpicciolito la maggioranza progressista, che solo allargandosi alle diverse espressioni plurinazionali riesce a superare il blocco reazionario in parlamento, com’è successo nel caso dell’elezione della presidente socialista Francina Armengol. Sánchez ha bisogno dei sette voti di Junts per evitare il ritorno alle urne e Junts sembra voler approfittare di quest’unica opportunità per rientrare in gioco, anche se ciò significa dare ragione a Esquerra Republicana che da tempo ha scelto la strategia del dialogo. Per il momento, il leader del Pp, Alberto Núñez Feijóo, incaricato dal re Felipe VI, si prepara a un’investitura per la fine di settembre che nascerà già fallita: il suo unico alleato è ancora e sempre Vox.