Benyamin Netanyahu ha chiuso ieri la campagna elettorale più sottotono della storia recente di Israele – perché offuscata dalla pandemia e dalla crisi economica – recandosi a quella sorta di altare che per lui è la colonizzazione israeliana della Cisgiordania. Si è presentato alla cerimonia della prima pietra dell’ampliamento dell’insediamento coloniale di Revava. Ma in questa quarta campagna elettorale in due anni, l’espansione delle colonie e l’annessione a Israele di ampie porzioni di Cisgiordania palestinese, i temi sui quali aveva battuto nelle tre precedenti, sono state affrontate solo marginalmente dal leader della destra. Neppure la recente firma dell’Accordo di Abramo con quattro paesi arabi ha avuto un’evidenza particolare. Il cavallo su cui Netanyahu ha puntato per vincere le elezioni è la campagna vaccinale. È stato evidente lo scorso 20 dicembre quando ha scoperto il braccio e si è fatto vaccinare primo fra gli israeliani, e ancora più chiaro quando ha investito circa 800 milioni di dollari per comprare dieci milioni di dosi dalla americana Pfizer. Quindi ha promesso che Israele sarebbe uscito dalla fase acuta della crisi entro marzo. E il fatto che il paese stia tornato in questi giorni a una quasi normalità avrà riflessi positivi per il suo partito, il Likud. Non con i numeri che il premier vorrebbe ma sarà in grado di avviare le trattative per formare la nuova maggioranza di destra.

Il voto è una sorta di referendum sulla figura di Netanyahu. Secondo i sondaggi il 51% degli israeliani non lo vorrebbe come premier ma è sempre lui il politico che raccoglie più consensi personali (36%). Sempre i sondaggi dicono che nessuno dei due campi – non più centrosinistra e destra ma pro e contro Netanyahu – ha la maggioranza di 61 seggi alla Knesset (120 deputati). Però è difficile fare previsioni. Tanti dei 6.528.565 elettori sono indecisi ma è possibile che una buona porzione di essi una volta dentro i seggi elettorali voterà per il Likud, non per motivi ideologici ma per il successo della campagna vaccinale di Netanyahu. Molto dipenderà da quanti piccoli partiti riusciranno a superare lo sbarramento del 3,25%. Anche in questo caso Netanyahu ha giocato di anticipo. Ha favorito l’unità dei partiti di estrema destra che, se entreranno alla Knesset, lo indicheranno per l’incarico di premier. Sul versante opposto ha soffiato sul fuoco delle polemiche nella Mustarake (Lista unita araba) dalla quale è uscito il partito islamista Raam che è pronto a dare al Likud un appoggio esterno se farà promesse concrete alla minoranza araba.

A minacciare il Likud c’è solo il resto della destra. Yesh Atid di Yair Lapid dovrebbe ottenere 17-18 seggi, poi tra i 7 e i 12 seggi ci sono Hatikva Hadasha di Gideon Saar, Yamina di Naftali Bennett e Israel Baitenu di Avigdor Lieberman. Insieme potrebbero mettere in difficoltà Netanyahu ma si azzuffano tra di loro. E a differenza del leader del Likud hanno rapporti non facili con i partiti dei religiosi ultraortodossi fondamentali per formare una maggioranza. Da segnalare il previsto ridimensionamento della Mustarake (da 15 a 8-9 seggi) e la scomparsa probabile del centrista Blu e Bianco. Il suo leader Benny Gantz alleandosi un anno fa con Netanyahu ha bruciato l’ampio consenso che aveva raccolto nel 2019. Rischia di non entrare alla Knesset anche il Meretz (sinistra sionista). I Laburisti sembrano in risalita. La nuova leader, Merav Michaeli, ha recuperato qualche consenso ma non andrà oltre i 7-8 seggi. Le urne si apriranno oggi alle 7 e chiuderanno alle 22. Un minuto dopo saranno diffusi gli exit poll.