Il premier uscente Yair Lapid passando le consegne a Benyamin Netanyahu ha scritto nelle note consegnate al suo successore: «Tornerò nel 2024». Non si può escludere. Ora però è il momento del leader del Likud e della destra con il quale si sono subito congratulati Joe Biden e Vladimir Putin. Netanyahu guiderà Israele grazie a un governo oscurantista ed estremista che se da un lato genera forti timori nella porzione laica e liberale della popolazione israeliana, dall’altro è il frutto naturale della larga vittoria della destra alle elezioni del primo novembre e, quindi, della volontà della maggioranza dell’elettorato israeliano. Ieri la Knesset ha dato la fiducia al nuovo governo che dispone di 64 seggi su 120. Metà sono Likud di Netanyahu, l’altra metà fanno capo all’alleanza di estrema destra (Sionismo Religioso e Otzma Yehudit) e a due partiti religiosi ortodossi Shas e Unione nella Torah. I ministri sono 29, tra cui solo cinque donne: Gila Gamliel (intelligence), Miri Regev (trasporti), Idit Silman (ambiente) che con la sua defezione la scorsa primavera diede la prima picconata alla composita coalizione «anti-Netanyahu» rimasta al potere per un anno e mezzo, Orit Struck (missioni nazionali) e Galit Distel Etbarian (ministra nell’ufficio del premier). Al partito di maggioranza relativa sono andati sia il ministero degli esteri – affidato inizialmente a Eli Cohen e poi fra un anno a Israel Katz – che quello della difesa assegnato al generale della riserva Yoav Galant. Incarichi di rilievo sono andati anche ai due partiti religiosi ortodossi.

Alla Knesset, in un’atmosfera infuocata, fra gli applausi scroscianti dei suoi sostenitori e le proteste dei deputati dell’opposizione, mentre centinaia di manifestanti di sinistra fuori dal parlamento scandivano slogan contro il nuovo esecutivo che fa prevedere una deriva religiosa e restrizioni ai diritti Lgbtq+ e delle minoranze, Netanyahu ha detto che il suo governo si prefigge tre obiettivi: la «neutralizzazione» degli impianti nucleari dell’Iran (dove «neutralizzazione» potrebbe significare un attacco militare), lo sviluppo di infrastrutture nazionali e l’estensione degli Accordi di Abramo con i paesi arabi. Quest’ultimo punto è centrale nella strategia del premier, intenzionato ad impedire ai palestinesi di autodeterminarsi nella loro terra. Già due giorni fa Netanyahu, rifacendosi alla legge fondamentale del 2018 che proclama Israele-Stato della nazione ebraica, aveva sentenziato il diritto «esclusivo» del popolo ebraico di autodeterminarsi nella biblica Terra di Israele (più o meno il territorio della Palestina storica). Si attende un nuovo forte impulso alla colonizzazione della Cisgiordania occupata e del Negev popolato da beduini. Probabile anche legalizzazione di tutti o di gran parte degli avamposti israeliani sorti negli ultimi due decenni nei Territori palestinesi dove il pugno di ferro delle autorità militari e di polizia si abbatterà con più forza. A svolgere questi incarichi saranno i leader dell’estrema destra. Il ministro delle finanze Belazel Smotrich (Sionismo religioso) avrà competenze anche nel ministero della difesa per ciò che riguarda gli insediamenti coloniali e la gestione della vita quotidiana dei palestinesi attraverso la cosiddetta Amministrazione Civile affidata per decenni all’esercito. Il ministro della Pubblica sicurezza Itamar Ben Gvir (Potere ebraico), di cui si è scritto e detto tanto dopo il voto del primo novembre, alla luce dei suoi passati legami con il movimento razzista e anti-arabo Kach, avrà poteri aggiuntivi sulla polizia e terrà sotto il suo pieno controllo i duemila agenti della Guardia di frontiera, un corpo speciale impiegato in prevalenza in Cisgiordania e Gerusalemme Est.  Gli stessi comandi della polizia israeliana, riferiva ieri Times of Israel, avvertono che decisioni avventate o provocatorie di Ben Gvir potrebbero riaccedere la miccia della sollevazione palestinese contro l’occupazione.

La popolazione di Cisgiordania e Gaza non ha mostrato alcun interesse per il nuovo esecutivo israeliano. Per i palestinesi un governo israeliano vale un altro, le politiche di occupazione sono sostanzialmente simili. Al contrario per l’Autorità nazionale palestinese (Anp) il ritorno al potere di Netanyahu è un dramma politico perché segna la fine delle possibilità residue di rianimare la moribonda soluzione a Due Stati. Mohammed al-Alul, il vice del presidente dell’Anp Abu Mazen, intervenendo alla direzione del partito Fatah, ha descritto il nuovo esecutivo israeliano «Un pericolo per Gerusalemme, per la moschea al-Aqsa, per i nostri figli e per il nostro futuro». Allo stesso tempo si è detto fiducioso che i palestinesi sapranno misurarsi «con questa sfida». Due giorni fa Abu Mazen ha chiesto al ministro della difesa uscente di Israele, Benny Gantz, di «mettere fine alle incursioni in Cisgiordania da parte dell’esercito e dei coloni». Richiesta che certo non sarà accolta dal governo Netanyahu.