L’uomo è ciò che mangia o è anche il luogo dove mangia, le persone con cui mangia, la memoria, la nostalgia, il racconto del cibo e dell’acqua? «Che ci mangio qui?» mi riporta al «qui», al luogo, dove sono stato legato al seno materno, dove ho scoperto che l’acqua è bene primario, che il «mangiare» è viaggio, cammino, fatica, conoscenza, desiderio, un fatto sociale totale. L’uomo della società tradizionale navigava in una zona di confine tra la soglia della fame e della sopravvivenza e quella desiderata, ambita, segnata dagli eccessi e dall’abbondanza, della cucina festiva.

IN MENO DI UN DECENNIO, ho visto polverizzarsi una civiltà che risaliva alla nascita dell’agricoltura e della scrittura. Dalla metà degli anni Cinquanta alla metà degli anni Sessanta, con il grande esodo dalle campagne e dai paesi verso la città e le fabbriche, con l’arrivo del boom economico, si sfarinava un mondo millenario, generando sentimenti dolenti e contrastanti, compiacimenti e nostalgie, speranze e illusioni, disincanti e ubriacature come davanti a qualcosa di completamente nuovo, di cui non si riescono a cogliere l’essenza e la direzione.

SI PASSAVA DAI DIGIUNI ODIATI e obbligati alle diete autoimposte o idealizzate; dalle erbe detestate alla carne così a lungo sognata; dalle malattie da denutrizione a quelle da iperalimentazione; dall’idea di grassezza come salute (e bellezza, forza) a quella di obesità come patologia; dall’eccezionalità del mangiare festivo alla festa alimentare ininterrotta e sempre possibile; dalla nostalgia e dall’utopia del mangiare a senza fine (o fino alla fine) alla nostalgia per un tempo alimentare perduto, trasformato in mito della genuinità e della naturalezza. Si passava dal «mangiare assieme» alla «solitudine alimentare» (cfr. De Martino, Baudrillard) più terribile della fame; dalla «sacralità» del mangiare che sconsigliava lo spreco di una mollica di pane (perché tutto era necessario) al trionfo del superfluo alla perdita del legame con la Terra.

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ABBIAMO VISSUTO L’ENTUSIASMO dell’arrivo degli elettrodomestici, delle utilitarie delle bevande e dei gelati, della Coca Cola e delle aranciate, delle prime cioccolate e dei primi panettoni. I mutamenti venivano accolti, tuttavia, anche con sospetto, con circospezione e diffidenza da chi temeva un possibile ritorno del peggio.

DAL NIENTE SI PASSAVA AL TROPPO e, come si dice ancora, «l’assai è come il niente», non restituiva gioia. Non si rimpiange un buon tempo antico alimentare mai esistito, ma la destagionalizzazione e la delocalizzazione, provocate dallo sviluppo industriale, segnalavano un’omologazione sempre più trionfante. Si assisteva a grandi abbuffate e a interminabili bevute, a ostentazione di piatti elaborati e solo di rado si aveva consapevolezza di avere superato il limite.

Negli anni precedenti il Covid-19, circa un miliardo e mezzo di persone nel mondo è a rischio di diabete, tumori e patologie cardiovascolari in cui l’eccesso di cibo è un fattore decisivo. L’ottanta per cento dell’umanità basa, tuttavia, la sua alimentazione su tre piante: grano, riso e mais; l’agricoltura delle gigantesche piantagioni di monocoltura; la semplificazione violenta di sistemi biochimici un tempo complessi e plurali; la sovrapproduzione e lo spreco scandaloso sono problemi enormi, legati al modo in cui ci nutriamo, e costituiscono altrettante sfide aperte per la politica a tutti i livelli. Martín Caparrós nel 2015 mostra come la fame cronica e totalizzante sia la normale condizione di vita di un miliardo di persone nel mondo, in Asia, in Africa, in America Latina e nelle periferie metropolitane dell’America del Nord e dell’Europa. I deportati del campo di sterminio sono, come scrive Primo Levi, «fame vivente». E «fame e sete vivente» sono migranti, profughi, persone che attraversano il deserto e spesso muoiono nel Mediterraneo.

MOLTI LAMENTANO CHE, A CAUSA DELL’EFFETTO serra, nel futuro sarebbe stato difficile pensare a un pranzo con una bistecca alla fiorentina, un bicchiere di Chianti o di champagne e delle ciliegie. Si diffondono gli allarmi perché, tra non molto, dovremo accontentarci di antipasti fatti di scarabei fritti, di hamburger di carne sintetica ottenuta in laboratorio, patate e tiramisù realizzati con una stampante. Fagioli, vino, caffè, cioccolato non faranno più parte della dieta abituale degli occidentali. Si proponeva il ritorno a una natura pura e incontaminata – separando artificiosamente natura e cultura, biologico e culturale – e contemporaneamente si procedeva alla sistematica distruzione dell’ambiente, dei luoghi, del suolo, dei boschi, del mare. Il mondo, prima del Covid-19, è dominato dall’ossessione del corpo e delle malattie sconosciute, dalla paura di morire per contagio, contaminazioni, virus. Eppure non si prendeva atto di quanto veniva denunciato. Una imminente pandemia era stata annunciata, tra gli altri, da David Quammen (2017) che la considerava inevitabile risultato di uno spillover.

GLI ALLEVAMENTI INTENSIVI costituiscono una strategia economica delle imprese dell’agrobusiness per fare della produzione di cibo una lucrosa fonte di profitti. Dopo il Covid-19, ci sentiamo, come dice Bruno Latour (2022), in un altro tempo, membri di qualche altra popolazione. Tutto diventava inquietante, perturbante, spaesante perché in realtà continuavamo a vivere, in maniera diversa, nella casa e nel luogo di prima, con i familiari e le persone di sempre, che improvvisamente ci apparivano altri, diversi. Abbiamo imparato, sperimentando comportamenti diversi, cosa significhi mangiare da soli o in compagnia, cosa comporti avere fame o sete in una situazione sospesa e precaria.

TUTTO È CAMBIATO, MA INTANTO SIAMO tornati a comportamenti e alle mitologie alimentari di prima, agli eccessi e agli sprechi, alle manie e alle ossessioni di cibo. Non ci sono soluzioni a portata di mano. Il ritorno critico, problematico, alle produzioni locali, il bisogno di conoscerne provenienza e qualità, la tutela dell’ambiente e delle campagne, la cura del suolo e del paesaggio, un’agricoltura «etica», una produzione e commercializzazione sottratte alla criminalità e alle grandi holding alimentari, industriali, la conoscenza della filiera alimentare, la consapevolezza di avere una biodiversità tra le più ricche del pianeta, quindi da proteggere e valorizzare, l’aspirazione al buon cibo, non avvelenato: sono elementi indispensabili per rigenerare comunità locali, in un mondo mediterraneo e globali. Il vuoto demografico delle aree interne di tutta Italia che è vuoto spaziale, produttivo, antropologico oggi potrebbe essere riempito con pratiche di buona produzione e buona cucina, da una «restanza» (legame rispettoso e con la Terra e col pianeta) in cui gli «avanzi» non vengano buttati, ma «riusati», mescolati in maniera sapiente, con fantasia, recuperando o inventando il valore di un mangiare parco, frugale, salutare, riconoscibile, che mantenga l’attenzione per gli ultimi del mondo, per quanti non hanno da mangiare e da bere.