«La Siria incombeva sulla mia vita fin dalla nascita, anche se non ne ero mai stata veramente parte. La Siria era stata per me molte cose… ora mi chiedevo cosa potevo essere io per la Siria». È il 2011, nel pieno delle primavere arabe, quando Alia Malek, avvocata specializzata in diritti civili e giornalista nata a Baltimora nel 1974 in una famiglia fuggita anni prima dal regime di Assad, sceglie di tornare a Damasco, ufficialmente per ristrutturare la casa in cui ha vissuto la nonna Salma, ma in realtà per respirare la promessa di libertà e democrazia che anima in quei giorni anche le piazze delle città siriane.

DUE ANNI PIÙ TARDI, quando una repressione selvaggia ha ormai schiacciato l’opposizione democratica e favorito l’ascesa degli jihadisti, sul punto di rischiare la sua stessa vita, sarà costretta a fare ritorno negli Stati Uniti portando però con sé la prima traccia di quello che è diventato Il paese che era la nostra casa (Enrico Damiani Editore, pp. 446, euro 19), uno straordinario memoir famigliare che testimonia allo stesso tempo della vicenda collettiva e delle speranze di un intero paese.

«Quando ho deciso di scrivere un libro sulla mia famiglia e sulla storia della Siria – spiega Malek che questo pomeriggio alle 18 sarà a Perugia per parlare di media e democrazia nel mondo arabo nell’ambito del Festival Internazionale del Giornalismo -, ho pensato soprattutto al contesto nel quale sono cresciuta, quello degli Stati Uniti». Infatti, «per molti americani parole come “siriano” o “musulmano” non hanno alcun significato, al massimo c’è chi ragiona in termini di “noi” e “loro”».

«RACCONTANDO LA MIA STORIA, la vita dei siriani di Baltimora, come di quelli di Damasco credo di essere riuscita invece a far sì che in molti abbiano cominciato a vedere se stessi, il proprio volto nell’immagine delle persone di cui descrivevo il percorso e le sofferenze. Anche se sono arrivata troppo tardi perché una diversa consapevolezza dell’opinione pubblica, americana e internazionale potesse pesare sull’esito di quanto stava avvenendo».

MEZZO MILIONE DI MORTI, oltre 10 milioni di profughi, città intere pressoché distrutte: la tragedia siriana è sotto gli occhi di tutti. Difficile però immaginare cosa potrà accadere ora. «Dopo gli eccidi e le distruzioni di questi ultimi otto anni siamo per certi versi tornati alla casella di partenza. Si è sconfitto il “demonio pazzo” dell’Isis mantenendo al potere il “diavolo conosciuto” di Assad. Certo, il regime è ancora in sella, ma non controlla più il paese allo stesso modo di prima», sottolinea Malek.

«Le proteste del 2011, la repressione selvaggia delle autorità, l’emergere degli islamisti, favorita anche dal fatto che Assad fece scarcerare i fondamentalisti che avevano combattuto in Iraq per indebolire e screditare l’opposizione democratica, quindi la nascita dello Stato islamico e la guerra civile: quanto è accaduto rende impossibile un semplice ritorno allo status quo. Milioni di siriani sono stati costretti a fuggire all’estero e oggi vivono una dimensione nuova: non sono più in patria ma possono finalmente esprimersi liberamente, senza il timore di essere sequestrati dalla polizia segreta e dai suoi informatori che sono onnipresenti». E costoro, aggiunge, «immaginano ormai un futuro che vada oltre il regime di Assad».

L’ORRORE SUSCITATO dalle gesta dello Stato Islamico, secondo Malek non deve far dimenticare il clima di repressione che continua a dominare la società siriana. «Ad una rivista cilena che mi ha intervistato lo scorso anno, ho spiegato che vivere nella Siria di Assad, un regime passato di padre in figlio e che dura ormai da quarant’anni, è un po’ come vivere nel Cile di Pinochet. Si tratta di uno Stato di polizia, dove i dissidenti e gli oppositori spariscono “semplicemente” senza lasciare alcuna traccia. Decine di migliaia di persone di cui non si sa più nulla e che le autorità negano perfino di aver mai arrestato e sequestrato».

La lunga guerra civile ha inoltre scavato solchi profondi nella società locale, resuscitando odi comunitari spesso sotto sembianze religiose. Un tema che Malek affronta evocando nel libro il «condominio Tahaan», quello dove viveva la famiglia di sua nonna, accanto a turchi, curdi, arabi, palestinesi, cristiani e musulmani, nella Damasco degli anni Cinquanta, e dove «l’idea stessa che la convivenza potesse essere resa difficile da quelle differenze era fuori discussione».

UN TEMA, QUESTO, in qualche modo speculare a quello dell’ipocrisia dell’Occidente, pronto a sostenere guerre in nome della democrazia e della libertà mentre chiude le porte ai migranti e ai profughi. Malek, già autrice anche di opere sull’America del post 11 settembre e sulla presenza musulmana nella storia degli Stati Uniti, non ha però dubbi in merito: «Per quanto si stia cercando di dividere la popolazione e imporre la logica del pregiudizio, penso in particolare a Trump e alla sua politica, specie tra i giovani americani prevale l’incontro e l’idea che il futuro si costruisca insieme. Come credo accadrà prima o poi anche in Siria».