1984 (da Diamond Dogs, 1974), Funk distopico e aggressive, uno dei brani più sorprendenti di un disco sempre sottostimato. L’arrangiamento degli archi permetti di intuire la svolta del soul bianco che covava appena dietro l’angolo.
Ashes to Ashes (da Scary Monsters, 1980) Il ritorno del maggiore Tom, uno dei brani chiave di un disco maiuscolo, un video che ha fatto epoca (con comparsata di Steve Strange) e una performance vocale memorabile. Un bilancio esistenziale da brividi.
Space Oddity (da Space Oddity, 1969) La posizione di Tony Visconti sulla canzone è nota (un tentativo di monetizzare velocemente) eppure la cura profuse (gli arrangiamenti di Paul Buckmaster in particolare) ne fanno uno dei brani più inevitabili del canone bowieano.

 

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Life on Mars? (da Hunky Dory, 1971) Considerata quasi unanimemente la canzone più bella di David Bowie, deve molto all’arrangiamento del fido Mick Ronson. Bowie ha sempre dichiarato di averla scritta in un solo pomeriggio, di getto. Una vera illuminazione.
Heroes (da Heroes, 1977) L’inno del periodo berlinese, da molti considerate l’apice assoluto della carriera di Bowie. La collaborazione con Brian Eno al meglio delle sue potenzialità, senza dimenticare le chitarre di Robert Fripp che s’intersecano e s’intrecciano.
Be My Wife (da Low, 1977) Momento di nudità domestica della prima facciata di Low (il primo con la collaborazione di Eno), piena di brani leggendari, è un momento di malinconia euforica assolutamente intossicante. Un gioiello sepolto fra altri gioielli.
John I’m Only Dancing, Primo singolo post-Ziggy, celebra il coming out bowieano. In realtà un magnifico inno all’ambiguità (non si capisce bene chi fa cosa con chi e perché…), molto più insurrezionale di una dichiarazione “veritiera”, resta uno dei suoi brani di seducenti e perturbanti.
The Stars (Are Out Tonight) (da The Next Day, 2013)Il singolo del ritorno. Un brano che nel quale sono osservabili, come stratificate, le diverse stagioni di David Bowie. E soprattutto la feroce convinzione di un musicista che ancora una volta si mette completamente in gioco senza alcuna remora.
Moonage Daydream (da The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, 1972), un manifesto di un’intera epoca che cristallizza l’era glam. Dopo quella dell’acquario, tocca all’era del sogno lunare della quale Ziggy era il menestrello d’elezione. Una brano perfetto.
Let’s Dance (da Let’s Dance, 1983), il successo del disco e la consunzione radiofonica ne hanno oscurato gli aspetti più innovativi. Zeppo di classici, l’album inaugura la fruttuosa collaborazione con Nile Rodgers degli Chic che si rinnova con Black Tie White Noise.
Station to Station (da Station to Station, 1976), una delle costruzioni più complesse del catalogo bowiano. Il brano annuncio il ritorno del Duca Bianco e anticipa gli scenari berlinesi. Dieci minuti visionari, fra elettronica e influenze kraut. Un brano e un disco cui ritorneranno in moltissimi.

 

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Young Americans (da Young Americans, 1975), Luther Vandross lo ha scoperto David Bowie e la sua voce si sente fra I cori del brani. Memoria soul, tentazioni funk, un orecchio all’elettronica, Bowie anticipa con un disco cui lui stesso si riferiva come “un pezzo di plastica”, tutta l’estetica dei New Romantics.
Thursday’s Child (da Hours…, 1999), una ballata malinconica, quasi un bilancio dei suoi anni Novanta e fine della controversa collaborazione con Reeves Gabrels (l’esperimento Tin Machine). I dettagli stanno tutti nei brani cosiddetti “minori”
Jump They Say (Black Tie White Noise, 1993), Bowie ritorna a lavorare con Nile Rodgers, firmando uno dei suoi dischi segretamente magistrali nel quale il soul e il funk sembrano riannodare il filo dei ricordi di Station to Station (vedi, Nite Flights).
The Man Who Sold the World (da The Man Who Sold the World, 1970), “Una chiara diagnosi per gli anni 70”, affermavano le note di copertina del disco all’epoca. E raramente indicazioni sono state più foriere di futuro. Una ballata minacciosa, sensuale e assolutamente contagiosa.