Non sono certamente pochi quelli che hanno avuto, all’improvviso, «apparizioni» di opere di Calder, nelle grandi città che le ospitano o le hanno ospitate in occasioni di mostre. Tra le tante, credo siano tre quelle che hanno colpito maggiormente il viaggiatore, soprattutto di notte. La prima è il nero Teodolapio, che sbuca, magico ed evocatore nei suoi diciotto metri di altezza, davanti alla stazione ferroviaria, prima di salire verso il vecchio borgo di Spoleto.

La seconda è Flamingo, che grandeggia, nei suoi sedici metri, in completa solitudine, riflesso nelle vetrine dei grattacieli che lo fiancheggiano, carico di energia, tesa macchina schiacciasassi, in Federal Plaza a Chicago, di fronte al Kluczynski Federal Building. La terza è stata a Torino, nel 1983, in occasione della grande esposizione, curata da Giovanni Carandente e allestita da Renzo Piano, dove il Cavallo rosso, sistemato sul marciapiede davanti al Teatro Regio, ripeteva il miracolo della memoria ancora presente nell’attuale sistemazione al National Sculpture Garden di Washington.

La conferma che l’opera di Alexander Calder (Lawnton, Pennsylvania, 22 luglio 1898 – New York, 11 novembre 1976) è una grande magia ci arriva ora dalla mostra aperta al Museo d’arte della Svizzera italiana (MASI) di Lugano fino al 6 ottobre, a cura di Carmen Giménez e Ana Mingot Comenge, con un allestimento mirato che, su leggere basi circolari dialoganti con gli ampi roteanti soffitti, mette in risalto lo sculpting time tra il 1930 e il 1960, l’eterno dialogo tra sphériques e constellations, stabiles e mobiles, questi ultimi particolarmente cari a Jean Arp e a Marcel Duchamp.

Rimbalzano le parole di Seathe, condottiero nativo americano capo delle tribù Duwamish e Squamish: «Di notte, quando le strade delle vostre città e dei vostri villaggi saranno silenziose, e voi le crederete deserte, pulluleranno di una folla che un tempo occupava e che ancora ama questa terra meravigliosa… Morti ho detto? Non c’è morte, ma solo un mutamento dell’esistenza».

Ogni volta, dunque, Calder parla di continenti perduti, di universi conosciuti e amati (Seathe, nel 1855, aveva rinunciato alle sue terre in cambio del diritto di pescare in pace), di eterne inquietudini, della presenza di invisibili morti e dei rimpianti e delle nostalgie di un universo semplice e misterioso, di uno spirito distrutto. E versi di animali, stormire di foglie, rumori di ghiacci incrinati sui laghi, di gente immersa nella vita che il catalogo Silvana Editoriale, nella sua semplicità di impaginazione (la scultura al centro della nuda pagina bianca), conserva e restituisce in modo inconsueto per pubblicazioni del genere.

Un’opera che asseconda la natura, quindi, quella di Calder. Che segue il sorgere e il tramontare del sole (non girano, i mobiles, secondo il moto della terra, assecondando il giro della testa che ruota passando dall’alto in basso legando gli occhi agli stabiles?); che rispetta il ciclo delle stagioni (non si dipingono, costellazioni e stabiles, dei colori dei mesi?); che fissa con solennità e spontaneità un rapporto strettissimo artefice-prodotto, strumento-funzioni, e pone in armonia ogni realizzazione con le potenze spirituali (non è la vera eredità pellerossa?); che lascia poco spazio alla meditazione, alla riflessione autonoma, al libero giudizio stilistico; che non si prende troppo sul serio e irride alle nuove civiltà degli europei, al mito della produttività e del profitto (le mani creano, contemporaneamente, gli utensili di ogni giorno e personaggi surreali con le gabbiette che reggono il tappo dello champagne) per restituirsi, sempre, al sorriso melanconico del circo, alla sua sottile surreale poesia.

L’opera di Calder è, in sostanza, una sfida, l’azione che prevale senza pervertire l’equilibrio naturale (Horizontal Spines, 1942). Non è una sfida l’allestimento delle opere, che di un consueto spazio espositivo ha fatto un ambiente straordinario, una festa della fantasia accesa da divertenti creature in filo di ferro, legno, stoffa, librate nello spazio, pulsanti d’aria, sgargianti della luminosità propria dei sogni collettivi? L’opera è sostenuta da strette relazioni formali con una cultura millenaria, vasta quanto il teatro del mondo, un vero circolo magico che ruota su dimensioni spaziali e temporali, sin dai primordi della civiltà, carico di un elemento ironico e di una simbologia che queste radici preservano in unità cosmica. Riappaiono, anche attraverso gli apparati, le effigi del mulo, della mucca e dell’alligatore, del caprone e dell’antilope, dell’elefante e della gazzella, della lince e dell’anitra; ogni effige si lega all’oggetto per sollecitarne l’uso metafisico.

L’artigiano divora e digerisce la cultura, si appropria creativamente o dilata l’ambiente, sofisticato e araldico evocatore alza i totem di un passato mitico (Assembled Bits of Wood, 1935), lancia nello spazio bottoni madreperlacei e coriandoli multicolori (Senza titolo, 1942), li gela in un soffio d’aria (Wall Constellation with Raw of Objects, 1943), li riduce in pezzi staccati che aeree calamite sostengono (Aspen, 1948), li seziona in moduli intercambiabili da catena di montaggio, fa trasmigrare in essi cielo e terra: l’arco e il quadrante, il dragone rosso, il pesce che stuzzica la balena, le penne indiane, il cono d’ebano, la costruzione gotica, le aste rosse, la macchia nera del bilanciere, l’obelisco, il parassita, l’incappucciato, il mobile di pietre, e sole e montagne, falci di luna, archi, mobili di cuori.

Nella ragnatela del mattino, sulla piuma azzurra, sul ciglio di forza, sul paesaggio marino, sui cinque archi rossi e ventinove cerchi, sulle ninfee, sul soldo del mendicante, una manciata di polline si libra, oscilla nel cerchio del sole, vola via al minimo colpo di vento, si posa lievemente, come fragile pendaglio, sulle frecce del vento, imbianca un universo che «sempre ricomincia, sempre è nuovo», aquilone e mulino a vento, festa e spettacolo (Triple Gong, 1948 circa).

Nulla soffoca il talento, la fiducia nelle proprie possibilità e, da subito, la sana nozione di una comunicazione con la materia (Big bird, 1937), lo svolgersi naturale delle facoltà immaginative (Yucca, 1941). Calder ritrova di volta in volta la creatività originale, complice il disegno (il rimando a Il Carnet di Pierre Matisse, 1941, 1942, 1943, è doveroso), che libera da tutti i principi e i canoni stabiliti, e, sollecitando l’utilizzazione di strumenti e materiali molto semplici (più i mezzi sono limitati più i risultati sono ricchi), risveglia di continuo la gioia di un gioco serio, che segue un ritmo nonostante la sua libertà, governata da leggi determinate dai materiali e dal loro impiego degli elementi di composizione che precisano l’elaborazione di ogni opera: il punto, la linea, la superficie, il volume, lo spazio e il colore (Quatre systèmes rouges, 1960).

Ogni elemento concorre a comporre e a scomporre l’opera, a fermare le ripercussioni e le frantumazioni di echi, i frammenti solo apparentemente inconoscibili, le interferenze delle onde, la complessità del continente Calder e il modo di percepirlo e di viverlo: l’attesa e l’avventura, il quotidiano e il sogno, l’infanzia taciuta e vagheggiata, il fascino di un’età irripetibile, l’eterna inquietudine dell’uomo visitato dall’invisibile «mutamento dell’esistenza».