Tanto tuonò che alla fine non piovve. Così si potrebbe riassumere la tornata elettorale di domenica scorsa in Albania dove tre milioni e mezzo di elettori sono stati chiamati alle urne per il rinnovo di 61 amministrazioni comunali. Le minacce di impedire il regolare svolgimento delle elezioni da parte dell’opposizione, sono rimaste fortunatamente lettera morta.

DA FEBBRAIO le opposizioni sono scese in piazza per chiedere le dimissioni del premier socialista Edi Rama e la formazione di un governo di transizione per traghettare il Paese verso elezioni anticipate. L’accusa è che l’esecutivo abbia vinto le passate elezioni con il sostegno determinante del crimine organizzato, come dimostrerebbero intercettazioni pubblicate su varie testate giornalistiche nei mesi scorsi. Lo scontro tra maggioranza e opposizione è poi approdato dalla piazza ai vertici delle istituzioni, quando il presidente della Repubblica albanese Ilir Meta, fondatore del Movimento socialista per l’Integrazione (Lsi), uno dei due principali partiti d’opposizione lasciato in eredità alla moglie Monika Kryemadh, ha annullato le elezioni amministrative precedentemente indette per il 30 giugno.

Una mossa quella di Meta a cui il premier ha reagito avviando una procedura per destituirlo, procedura che non potrà essere portata a termine per l’inoperatività della Corte costituzionale, azzerata dalla complessa riforma del sistema giudiziario avviata dal governo Rama con il sostegno della Ue e degli Stati Uniti.

Da qui l’epilogo falsato del voto di domenica scorsa. Vincitore delle elezioni è infatti il Partito socialista (Ps) di Rama. Una vittoria falsata, appunto, dal boicottaggio del voto da parte dei partiti di opposizione, il Partito democratico di Lulzim Basha (Pd) e l’Lsi di Kryemadh.

IN 35 COMUNI SU 61 gli elettori hanno trovato un solo candidato sulla scheda, quello del Ps, mentre nei restanti i socialisti correvano insieme ad altri candidati minori. Circostanza che ha fatto scattare il parallelo con il regime comunista di Enver Hoxha. Molte sono state le proteste inscenate da membri dell’opposizione che fuori dai seggi hanno intonato canti comunisti e indossato le uniformi dell’epoca.
Emblematico il dato sull’affluenza che secondo la Commissione elettorale centrale è stata del 21.6% degli aventi diritto al voto, la più bassa mai registrata in Albania. Un dato contestato dall’opposizione per cui a recarsi al voto sarebbe stato appena il 15% degli iscritti alle liste elettorali.

SECONDO LA COMMISSIONE sono 771 mila gli elettori che hanno espresso il loro voto. Il che fa dedurre che Edi Rama abbia sostanzialmente mantenuto i propri voti. Il premier si era infatti imposto alle elezioni politiche del 2017 con 750 mila voti sui candidati di opposizione. Segno evidente che se da un lato cresce il malcontento verso il governo, dall’altro l’opposizione non viene considerata dall’elettorato come un’alternativa credibile.
LA DECISIONE del Pd e dell’Lsi di boicottare i lavori parlamentari si è rivelata un vero boomerang per le opposizioni. Ai deputati che avevano rimesso il mandato parlamentare ne sono infatti subentrati altri, sconfessando così la linea politica dei partiti d’appartenenza.

Di certo, il risultato più importante delle elezioni di domenica scorsa è stata la certificazione nero su bianco della profonda crisi politica e istituzionale che attanaglia l’Albania da mesi. Per la missione internazionale degli osservatori elettorali, guidata dall’Osce-Odihr «la fiducia pubblica nel processo elettorale in Albania è stata minata dalle tensioni e delle incertezze che hanno dominato le elezioni». Una valutazione destinata a pesare anche sull’avvio dei negoziati per l’adesione all’Ue, questione sulla quale Bruxelles si pronuncerà il prossimo ottobre. Da domenica scorsa per Tirana l’orizzonte europeo è sempre più lontano.