«Chi vi paga?». Razzisti di ogni risma e haters da social network lo chiedono ossessivamente, facendo aleggiare all’occasione il fantasma del solito Soros, eminenza oscura di qualsiasi complotto immigrazionista. «Non abbiamo grandi spese: è tutto lavoro volontario e ci basta qualche spiccio per il telefono. Il progetto è sostenuto da piccole donazioni e iniziative di autofinanziamento» risponde con naturalezza Chiara Denaro, da Palermo. È una delle 200 persone che mantengono attiva la linea telefonica di Alarm Phone (Ap), il numero di telefono per le emergenze in mare a cui i rifugiati chiedono aiuto.

«ALARM PHONE non può effettuare salvataggi. Non siamo fisicamente presenti nel Mediterraneo e non abbiamo imbarcazioni, né elicotteri» si legge sul sito dell’organizzazione. Ap può però diffondere il segnale di Sos e pressare le guardie costiere affinché intervengano. Il verbo «pressare» è indice preciso dell’assurda situazione che regna nel Mediterraneo: istituzioni assenti, Ong criminalizzate, richieste di soccorso inevase, convenzioni internazionali violate. Il risultato è che le persone sono lasciate morire nel silenzio del mare o deportate tra le urla di disperazione nei campi libici.

«ALL’INIZIO non era così – dice Deanna Dadusc, italiana residente a Brighton, dove insegna all’università – C’era una buona collaborazione con le guardie costiere. Soprattutto quella italiana ci ringraziava delle informazioni e soccorreva le persone. Ma ormai Roma e La Valletta non rispondono più: hanno delegato tutto ai libici. L’unica novità positiva degli ultimi anni è la flotta umanitaria delle Ong, che hanno salvato tantissime vite». Ap nasce a ottobre 2014, un anno dopo il naufragio in cui 368 persone persero la vita a poche miglia da Lampedusa. Attivisti del movimento No Border tedesco si confrontarono per 12 mesi con Don Mussie Zerai cercando di capire insieme cosa fare. Il numero di telefono di Zerai si era diffuso tra i rifugiati che tentavano la traversata, lui aveva perso il sonno e non riusciva a stare dietro a tutte le chiamate. «Serve qualcuno che parli le lingue», disse.

SI ORGANIZZÒ un sistema di turni e mediatori linguistici che garantiscono assistenza 24 ore su 24, 7 giorni su 7, da quasi 6 anni. Da oltre 3 mila imbarcazioni in difficoltà, con a bordo un numero incalcolabile di vite umane, è stato composto il +33486517161 (numero pubblico, che si trova su internet). A quelle telefonate hanno risposto attivisti di gruppi locali basati in diversi paesi, da un lato e dall’altro del Mediterraneo. Ce ne sono a Tunisi, Palermo, Melilla, Tangeri, Cadiz, Marsiglia, Strasburgo, Londra, Brighton, Vienna, Zurigo, Berlino, Ginevra e Izmir. Dividono la settimana in 21 turni da 8 ore: il telefono non è mai spento. Solo negli ultimi due mesi Ap ha permesso di documentare il «naufragio di Pasquetta» (12 morti e 51 respinti) e sostenuto il lavoro di inchiesta del quotidiano Avvenire, che ha denunciato l’esistenza di una «flotta fantasma» di pescherecci che respingono illegalmente in Libia i migranti arrivati nella Sar maltese.

LE CHIAMATE ad Alarm Phone arrivano da tutte e tre le rotte migratorie mediterranee. Ognuna presenta situazioni e problemi specifici. «Nell’Egeo le distanze sono brevi, i rifugiati partono dalla Turchia vedendo il profilo delle isole greche – spiega Lorenz Naegeli, 31 anni, attivista e giornalista free lance – Più che dare indicazioni registriamo e denunciamo gli abusi. La guardia costiera greca distrugge i motori dei gommoni e li abbandona nelle acque turche. Siamo entrati in una nuova era della guerra ai migranti: i respingimenti illegali che mettono a rischio la vita delle persone sono diventati la norma. Accadono quotidianamente».

TRA LE DIVERSE guardie costiere, quella spagnola è rimasta un po’ più collaborativa. Lungo la rotta occidentale, che unisce il paese iberico al Marocco, è ancora possibile che le pressioni producano l’intervento delle autorità. Anche in quest’area, però, ci sono barche di cui si perdono le tracce. «Per noi che viviamo dall’altro lato del Mediterraneo le migrazioni sono una realtà quotidiana, ma la prospettiva è opposta rispetto a quella europea: le storie riguardano gli amici o i conoscenti che sono partiti, a volte riuscendo ad arrivare, altre scomparendo nel mare», dice Hela K. studentessa 24enne di economia che partecipa ad Alarm Phone da Tunisi.

NEL TRATTO di mare tra Tunisia, Libia, Malta e Italia l’intervento è più complesso: le distanze sono molto maggiori, il tempo di navigazione può prolungarsi per giorni, si comunica solo con i telefoni satellitari, la minaccia dei libici è costante. «Quando arriva una chiamata la prima cosa da fare è capire da dove viene – afferma Dadusc – Poi qual è il problema: motore, acqua, stato di salute. Consideriamo in distress tutte le barche che ci chiamano, perché viaggiano in condizioni precarie. Sono in pericolo di naufragio sin dalla partenza». Gli attivisti chiedono la posizione Gps, che non sempre i naviganti conoscono o riescono a comunicare agevolmente. Le coordinate sono poi inserite in una mappa aperta che si trova sul sito di «Watch the med», l’organizzazione sorella di Ap. A quel punto iniziano le telefonate alle autorità e le richieste di intervento. «Le reazioni possono essere diverse – racconta Denaro – Malta e Italia a volte non rispondono, oppure non si mobilitano, non condividono le informazioni. Cerchiamo sempre di mantenere i contatti con le imbarcazioni fino al salvataggio o fino a quando il telefono smette di squillare».

IN QUESTO MARE non tutte le storie hanno un lieto fine. A volte il cellulare si scarica, il contatto si perde e non si riesce a capire cos’è successo. Altre volte alla perdita del contatto segue la notizia del ritrovamento di barche capovolte e cadaveri. Può anche capitare che molti giorni dopo arrivi una nuova chiamata dallo stesso numero, ma questa volta il rumore di sottofondo non sia quello delle onde ma l’inferno dei centri di detenzione libici. «È difficile gestire queste situazioni a livello emotivo – continua Dadusc – Quando finisce il turno ma c’è un caso aperto non riesci a tornare alla normalità, ad andare a dormire. Non tutti reggono. Ma dobbiamo continuare, siamo lì per coprire il vuoto lasciato dalle istituzioni, per documentare quello che accade e moltiplicare le pressioni sulle autorità. Il nostro obiettivo a lungo termine è non esistere, non essere più necessari. Preferirei fare altro che stare giorni e giorni a seguire una barca abbandonata in mezzo al Mediterraneo».