Una settimana dopo la conclusione dell’attacco terrorista al complesso commerciale di Riverside termina anche la sindrome della notizia e trovano spazio le prime domande e le prime riflessioni.

I morti sono ufficialmente 21, ma ci sono ancora 19 persone disperse. Ha destato un certo scalpore che tra i terroristi di Nairobi vi fosse il figlio di un sergente dell’esercito keniano, Ali Salim Gichunge, alias Farouk, che si ritiene sia morto nell’attacco del martedì.

LA SCELTA DEL LUOGO non è apparsa casuale, sufficientemente aggredibile e sufficientemente di élite: il centro commerciale è al centro di un quartiere dove sono presenti tre ambasciate occidentali – Australia, Olanda e Germania – che lo hanno reso un popolare ritrovo per diplomatici e ricchi keniani. Ma nel complesso hanno anche sede gli uffici di società internazionali tra cui Colgate Palmolive, Reckitt Benckiser, Pernod Ricard, Dow Chemical e SAP.

La coincidenza della data, 15 gennaio, con il precedente attacco di El Adde in Somalia dove morirono 140 militari keniani è stata interpretata come una risposta alla presenza keniana in Somalia: «Vi attaccheremo finché non ve ne andrete». Tuttavia, il Kenya era entrato in Somalia nell’ottobre 2011 con l’operazione Linda Nchi (proteggi il Paese) dopo che gruppi terroristici somali avevano iniziato a colpire installazioni e civili keniani. Ma forse gli eventi decisivi erano stati il rapimento di due operatori umanitari spagnoli nel campo profughi di Dadaab e il rapimento di una donna francese a Lamu.

DOMENICA c’è stato un ulteriore attacco, sempre da parte di miliziani al Shaabab, nella cittadina di Garissa: un gruppo pesantemente armato ha preso di mira un cantiere di proprietà cinese, ma le guardie e la polizia hanno respinto l’attacco. Mentre è di ieri la notizia dell’arresto di tre sospetti inseriti in una lista dei terroristi «più pericolosi» nella contea di Isiolo. I famigliari hanno, tuttavia, rivendicato l’innocenza dei tre spiegando che sono solo operatori di boda boda (autisti di motorini).

In sintesi, sia a Nairobi che a Garissa e Isiolo, la sicurezza keniana ha mostrato una capacità di reazione crescente. Dopo gli errori del Westgate e le successive azioni di repressione nei confronti della popolazione keniana di origine somala, in gran parte di religione musulmana, il governo ha rischiato di mettersi contro 4 milioni di suoi cittadini. La strategia, come spiegato nel report dell’International Crisis Group, è stata ripensata favorendo il dialogo con i leader delle comunità locali e lavorando soprattutto con azioni di intelligence.

DALL’ALTRA PARTE DEL PAESE, invece, continuano le ricerche della volontaria italiana Silvia Costanza Romano rapita lo scorso 20 novembre nel villaggio di Chakama (vicino la costa di Malindi). Il nuovo comandante della polizia della regione costiera, Marcus Ochola, ha ribadito dopo 62 giorni dal rapimento la sua ferma convinzione che «Silvia è ancora in Kenya e non può essere stata portata in Somalia». La foresta è complicata (clima, comunicazioni…) ha spiegato, facendo ancora appello alla popolazione locale: «Abbiamo bisogno di collaborazione e garantiamo che non ci saranno rischi per gli informatori». Silenzio invece dalla Farnesina. Segno di una delicata trattativa in corso o conferma del buio?