La vigilia del summit G20 di oggi e domani a Delhi non è stata baciata da una buona stella. E se il presidente cinese Xi Jinping ha dato buca, facendosi sostituire dal premier Li Qiang, Narendra Modi – il padrone di casa – non è stato meno avaro negli sgarbi. Il più plateale è non aver invitato al pranzo di gala di oggi Mallikarjun Kharge, presidente del maggior partito di opposizione – il Congresso – e ora a capo di una coalizione di 28 partiti che hanno scelto per le prossime elezioni l’acronimo INDIA.

E CHISSÀ SE, anche per questo motivo, Modi ha fatto stampare sull’invito al pranzo uno dei due nomi della repubblica indiana: Bharat e non quello ben più noto di India. Mossette di politica interna che, nonostante il desiderio di far scena nel parterre globale (anticipato dai lanci nello spazio di alcuni giorni fa), disegnano bene l’anima autoritaria e autoreferenziale (e ultranazionalista) di un leader che nei manifesti che annunciano il G20 ha fatto disegnare un simbolo con un loto che ricorda, guarda caso, quello del suo partito, il Bjp.

Il 18mo summit del G20 inizia dopo la conclusione del vertice Asean di Giacarta nel cui comunicato finale non solo si è fatto appello perché i grandi player affacciati sull’Indo Pacifico dialoghino e trovino il modo di far terminare la guerra in Europa, ma si è evitato di mettere in luce i contenziosi con la Cina, cosa che Modi ha fatto invece alzando la voce nel suo intervento al vertice indonesiano.

La guerra in Ucraina e i problemi con la Cina sono del resto i temi che per forza di cose oscurano il sole di Delhi, assai più di quello di Giacarta dove sono stati tenuti nel backstage. Come Modi saprà districarsi tra l’amicizia con la Russia e un contenzioso con la Rpc che ha visto indiani e cinesi darsele di santa ragione lungo il confine tre anni fa è da vedere.

Se vuole mostrare di essere un leader mondiale, qualcosa sulla guerra dovrà dire ma dovrà anche buttare acqua sul fuoco nel Pacifico se non vuole che se ne inizi un’altra con la Cina. Una nuova «guerra fredda», per ora, che, come ha detto Li Qiang a Giacarta, corre il rischio di essere il mantra dei prossimi anni. Sperando che si limiti a rimanere fredda se non congelata.

C’È DA IMMAGINARE che comunque gli americani abbasseranno i toni anticinesi già soddisfatti per il fatto che Xi Jinping non c’è e che Biden non incontrerà Li Quiang. Ma sulla guerra russa in Ucraina saranno più esigenti benché nel comunicato congiunto, dopo un incontro ieri tra Biden e Modi, non ci sia traccia né di Kiev né di Pechino.

Benché Modi sia un paladino del sud globale, come ama dire, e l’India sia tra i fondatori dei Brics – con Brasile, Russia e Cina – gli indiani sono molto attenti ai loro rapporti con Washington: cresciuti in maniera esponenziale nel commercio di beni e armi, nel nucleare civile, nei rapporti bilaterali con 5 milioni di indiani che vivono negli Usa, quasi il doppio di quelli del Regno unito.

Nel contempo New Delhi non sembra voler recidere i legami con Mosca che datano dalla nascita nel 1947 di un’India liberatasi dal giogo coloniale e da una scelta di campo dei padri fondatori di un’Urss che garantiva il suo ombrello protettivo. Benché Delhi si sia poi rivolta anche ad altri (Usa e Francia soprattutto), Mosca resta un gran fornitore di sistemi d’arma e più recentemente di energia. Dall’inizio della guerra in Ucraina, l’India, anche grazie a grossi sconti, è diventata il terzo compratore di greggio russo (dopo Cina e Ue). E sebbene si sia anche proposto come eventuale pacificatore, Modi si è sempre guardato dal condannare apertamente l’invasione.

Putin comunque, non ci sarà (nemmeno Zelensky) e ha informato Modi al telefono il 28 agosto che a rappresentarlo ci sarà l’inossidabile Lavrov. Vedremo se saranno scintille.
Infine l’Italia. La premier Giorgia Meloni è già arrivata a Delhi. È il suo secondo G20 dopo quello 2022 in Indonesia. Più sicura di sé ha già avuto i primi incontri bilaterali che continueranno anche oggi.

IL PIÙ ATTESO è quello, su proposta cinese, con Li Quiang. Inevitabile che i due parlino dell’accordo di partenariato che fu firmato dal governo Conte e che faceva dell’Italia un tassello chiave della Belt and Road Initiative. Ma l’esecutivo di centrodestra, facendo felici gli statunitensi, ha messo in dubbio il rinnovo del memorandum del 2019.

Però, se in un’intervista nel settembre di un anno fa quella firma di Conte veniva giudicata da Meloni un errore, aggiungendo che «se mi trovassi a dover firmare il rinnovo domani mattina, difficilmente vedrei le condizioni politiche», oggi (premier) la leader di FdI frena. E nel suo viaggio negli Usa in luglio, dice a Fox News: l’uscita dalla Via della Seta «dovrà essere discussa col governo cinese e nel parlamento italiano». Vedremo.