Ieri la corte di assise del Cairo ha condannato alla pena di morte sei persone accusate di spionaggio a favore del Qatar. Tra loro tre giornalisti giudicati in contumacia: Asmaa Mohamed al-Khatib dell’agenzia Rassd legata alla Fratellanza Musulmana; e due dell’emittente qatariora al Jazeera, il produttore Alaa Omar Mohammed e il caporedattore Ibrahim Mohammed Hilal. Ora la palla passa al Gran Muftì, la più prestigiosa figura religiosa sunnita, che dovrà esprimere il proprio giudizio, non vincolante ma generalmente rispettato dalle corti penali.

Una complessa rete di imputazioni che passa per la redazione di al Jazeera, dal luglio 2013 ampiamente perseguita dal regime militare: secondo il procuratore, documenti classificati riguardanti esercito e servizi segreti sarebbero stati fatti transitare attraverso i giornalisti dell’emittente di Doha nelle mani del Qatar (considerato il principale sponsor del movimento frerista), in cambio di denaro.

I sei sono imputati nello stesso processo che vede al banco anche l’ex presidente Morsi, esponente della Fratellanza Musulmana. Lui non è stato però giudicato: la sua sentenza è stata nuovamente rinviata, stavolta al 18 giugno, dopo il responso del Gran Muftì. L’ennesimo processo per Morsi: se l’ex dittatore Mubarak e il suo entourage vengono regolarmente prosciolti da tutte le accuse mosse nei loro confronti per 30 anni di regime, sulla testa dell’unico presidente democraticamente eletto in Egitto pesano già una condanna a morte, un ergastolo e 20 anni di prigione.

Si intrecciano così i due oggetti principe della repressione manovrata dal burattinaio al-Sisi, i Fratelli Musulmani e la stampa. Se il ministro degli Interni Ghaffar, target della protesta dei giornalisti, non risponde alle pressioni mediatiche, i parlamentari si spaccano tra chi critica il comportamento del Ministero e chi lo sostiene. Ma la presa di posizione più dura è quella della Commissione parlamentare per i media e la cultura. Il suo presidente, Ghada Sakr, ha fatto appello al boicottaggio dei quotidiani egiziani schierati contro il governo.

Intanto restano in prigione Malek Adly, responsabile del Network dei Legali dell’Egyptian Center for economic and social rights, e il membro del Movimento 6 Aprile Zizo Abdo, arrestati giovedì notte. Le prime notizie sulle loro condizioni sono giunte ieri: il collega di Adly, Mahmoud Bilal, e il suo avvocato, Sameh Samir, hanno detto all’agenzia indipendente Mada Masr che i due hanno sul corpo i segni inconfutabili di violenze. Samir li aveva incontrati nella stazione di polizia di Maadi, qualche ora dopo l’arresto. Durante l’interrogatorio, il giorno dopo, a Malek Ably è stato chiesto di esprimere un’opinione sul caso di Giulio Regeni e sull’abbattimento dell’aereo russo ad ottobre.

Per discutere degli sviluppi nell’inchiesta sull’omicidio del ricercatore si incontrano oggi al Cairo i due team investigativi italiano e egiziano. Il meeting segue alla consegna dei tabulati di 13 cittadini egiziani, un numero estremamente limitato rispetto alle richieste della Procura di Roma e che è prodotto di una selezione ad hoc operata dal procuratore generale egiziano.

Tra i 13 egiziani spicca Mohammed Abdullah, segretario del sindacato degli ambulanti da tempo sotto osservazione. L’uomo era in contatto con Giulio per la ricerca sui sindacati indipendenti che il giovane stava realizzando. I due si erano incontrati anche alla riunione sindacale di metà dicembre, la stessa in cui Giulio – così riferì ad alcuni amici – era stato fotografato.

Ma la misura della minaccia che il caso Regeni rappresenta per i vertici carioti l’ha data ieri il tribunale che sta giudicando Ahmed Abdallah, presidente della Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà e consigliere della famiglia del ricercatore: la corte d’appello del Cairo ha cacciato dall’aula diplomatici italiani e britannici che si erano presentati all’udienza per estendere l’ordine di detenzione di Abdallah, arrestato il 25 aprile con l’accusa di incitamento alle proteste anti-governative.

Abdallah, ieri, ha voluto ricordare Regeni: davanti alla corte è arrivato tenendo in mano un origami con la scritta in arabo “Verità per Giulio”.