Ieri si è aperto in Cina – a Chengdu nel Sichuan – il settimo congresso mondiale di Slow Food (400 delegati da 90 paesi). Per il fondatore Carlo Petrini «la scelta della Cina ha un alto valore simbolico».

IL MOVIMENTO IN CINA, ha proseguito Petrini, «sta muovendo i primi passi» e Slow Food vorrebbe aprire mille villaggi nel paese entro cinque anni, pensando a come fare interagire le comunità cinesi con quelle italiane. Neanche la scelta del luogo che ospita l’evento è casuale: dieci anni fa circa, Chengdu con Chongqing ha lanciato i primi progetti legati alla politica della «nuova campagna», ovvero il tentativo di collegare sempre di più la città alle zone rurali. Quelli espressi da Petrini sono propositi ambiziosi: spunti ottimisti che si devono confrontare però con criticità legate al presente e al passato della Cina.

DA UN LATO I DESIDERATA di Slow Food trovano una nuova ondata di comunità rurali e mercati biologici cinesi che provano a rispondere alla grande insicurezza alimentare che si respira nel paese, complici i pochi controlli qualitativi, l’inquinamento e le scelte «di sviluppo urbano» degli ultimi 40 anni. Si tratta di movimenti nati come reazione all’urbanizzazione a tappe forzate – sia quella degli anni ’80 con Deng, quanto quella degli ultimi anni per le città di «piccolo e medio livello» – che ha portato a un progressivo abbandono delle campagne e a una drastica riduzione dei terreni coltivabili (nel 2014 il 20% delle terre in Cina risultava «gravemente» inquinato e non a caso la Cina compra terre in Ucraina ed è ormai nota per il land grabbing in Africa).

QUESTI ESPERIMENTI si sviluppano oggi nei mercati biologici nelle grandi città (a Pechino ci sono realtà ormai consolidate come il Beijing Farmers Market) spinti dalla nascente classe media locale che chiede una qualità della vita al livello del proprio benessere economico. Dall’altro lato però questi desideri si scontrano con una realtà storica che vuole le campagne al centro di riflessioni e scelte politiche – e snodi storici, basti pensare alla dissoluzione delle comuni maoiste volute dalle riforme di Deng – che hanno costituito il punto centrale dello sviluppo cinese per molti anni.

ALL’EVENTO DI SLOW FOOD non a caso ha parlato anche il cinese Wen Tiejun, dell’Istituto di studi avanzati per la sostenibilità alla Renmin University e «inventore» dell’Istituto per la ricostruzione rurale alla Southwest University. Wen ha specificato che «per affrontare i cambiamenti in atto è necessario lavorare sull’integrazione fra il contesto urbano e quello rurale. Tre concetti vanno posti al centro di questo sviluppo: la solidarietà per i diritti dei contadini, la sicurezza agricola ecologica, la sostenibilità ambientale rurale. E per farlo bisogna passare da un modello politico fondato sul capitale a uno fondato sulle persone».

LE PAROLE MOLTO FORTI – e piuttosto contrarie all’andazzo attuale del paese – di Wen non devono stupire: di recente lo studioso è stato tra i primi a occuparsi di certi temi e ha saputo utilizzare l’influenza guadagnata con i suoi studi per arrivare a porre anche al governo centrale quelli che lui definisce «i tre problemi della campagna», inserendosi in quel «nuovo movimento per la ricostruzione rurale» che ha portato proprio alle sperimentazioni di Chengdu e Chongqing. Si tratta però di un tema che in Cina ha origini lontane.

Ou Ning, intellettuale libertario e fondatore di una comunità rurale a Bishan, in un articolo (tradotto in italiano da China Files) specificava che «negli ultimi 100 anni di storia cinese, la ricostruzione rurale è stato un fondamentale tema di discussione. È passato tra innumerevoli vicissitudini e, ogni volta che riappare, induce alla riflessione forze politiche e intellettuali sulla capacità di trasformazione della società stessa. La Cina, con la sua strenua ricerca di modernità, l’ha sempre vissuto come un dilemma di cui non riesce venire a capo».

Mao stesso aveva puntato tutto sull’organizzazione delle campagne, con le comuni; progetti falcidiati dalla corsa all’est cinese verso il lavoro sottopagato ma garantito dalle zone economiche speciali.

URBANIZZAZIONE E MIGRAZIONI interne, che oggi rimbalzano in faccia a una dirigenza tesa a sviluppare mercato interno dei servizi e presenza internazionale. Va riconosciuto però che qualcosa si muove: non si tornerà forse all’utopia libertaria del «nuovo ruralismo» (sviluppatosi nel 1910 per volere dallo scrittore giapponese, Saneatsu Mushanokoji, che per l’occasione diede vita anche a una rivista «Betulla» e che si basava – come spiega Ou Ning – sul mutuo appoggio alla Kropotkin), ma di sicuro da questo nuovo interesse per un’alimentazione e un ambiente sano potrebbero arrivare soluzioni per collegare questo ri-emergente mondo rurale ad altre comunità di tutto il mondo. Sempre il governo centrale sia d’accordo.