Le edizioni e/o hanno appena ripubblicato uno dei grandi romanzi della tradizione narrativa africana, I soli delle indipendenze (traduzione di Monica Amari, pp. 192, euro 18) dello scrittore malinke Ahmadou Kourouma (1927-2003), già comparso nel 1996 con Jaca Book nella versione di Mario Bensi. L’originale era uscito nel 1968 in Québec, dopo esser stato rifiutato dagli editori francesi. L’opera è una pietra miliare nella storia delle letterature d’Africa, sia per le audaci e personalissime invenzioni stilistiche, sia per gli argomenti che affronta creando un quadro sarcastico e satirico, ma al contempo realistico, dell’universo postcoloniale articolato in modalità visionarie e tragicomiche, in un linguaggio altamente inventivo, un francese plasmato sulla sottostante lingua africana di espressione orale. È quindi doppiamente importante veder riaffiorare questo libro strabiliante che aprì la strada a tanti romanzi successivi e che comunque rimane un capolavoro unico nel suo genere. Anche oggi la rilevanza di quest’opera si riafferma prepotente per forza espressiva e originalità stilistica, come pure per una capacità di visione politica e culturale di drammatica vivezza.

I SOLI DELLE INDIPENDENZE narra di Fama Dumbuya, ultimo discendente dell’omonima famiglia principesca dello Horodugu, nell’attuale Guinea. Come lo stesso Kourouma, anche Fama è un malinke, popolazione diffusa in varie parti dell’Africa Occidentale. All’apertura del romanzo corre affannosamente a un funerale, dove però il griot lo dileggia definendolo «avvoltoio», poiché va ai funerali per saziarsi. E del resto lui stesso è consapevole di essere decaduto e ridotto miseramente rispetto al rango della sua stirpe: «Proprio lui, Fama, nato nell’oro, nel cibo, negli onori, tra le donne! Educato per preferire l’oro all’oro, per scegliere il cibo prima degli altri e per dormire con la favorita scelta fra cento spose! Che cosa era diventato? Un avvoltoio».

Fama vive da parassita e grazie alla moglie Salimata che vende cibo cotto nel mercato cittadino. Con Salimata i rapporti sono tesi poiché i figli non arrivano e i coniugi si accusano l’un l’altro d’essere sterili, mentre la donna ricorre a ogni mezzo pur di rimanere incinta, e vaga da un marabutto e uno stregone all’altro. Fama inoltre è disgustato per come vanno le cose pubbliche. Lui, che ha combattuto contro il colonialismo francese e quindi ha criticato il nuovo ordine postcoloniale, si trova ora sottoposto a un regime che disprezza e che definisce sarcasticamente «i soli delle indipendenze», schernendone aspramente il carattere prevaricatore e autocratico, ipocrita e predatorio.

L’IMPOSTURA e l’egoismo governano un mondo che si era aperto con tante promesse, e Fama si ritrova a riandare al passato con dolore e nostalgia. Perciò, non appena ha notizia della morte dell’ultimo rappresentante dei Dumbuya i cui funerali avverranno nel villaggio avito di Togobala, in Guinea, si incammina per presenziarvi ed assumere la carica che gli spetta di nuovo principe Dumbuya. A Togobala, però, dove arriva dopo un viaggio rocambolesco, trova che l’antico insediamento è semiabbandonato e ormai in rovina, cosicché la sua è una ben magra eredità. Quindi ritorna nella capitale portando con sé una seconda moglie che fa parte appunto dell’eredità, essendo la vedova del defunto suo predecessore Dumbuya.

Ma ecco sopraggiungere un’ondata di tumulti e cospirazioni in cui Fama è coinvolto e che lo fanno finire in carcere, condannato ad anni di detenzione. Verrà improvvisamente amnistiato dopo qualche tempo, ma ormai la sua forte fibra di cacciatore è intaccata, il suo animo piegato e sconvolto dalle sventure, e finirà ucciso da un coccodrillo dopo essersi buttato in un fiume per sfuggire alle guardie che lo inseguono per aver attraversato illegalmente dei confini per tornare a Togobala, dove non arriverà mai.

La parabola tragica di Fama Dumbuya rispecchia l’impossibilità per l’eroe di accettare una sorte sciagurata e un declino inesorabile, ma anche, d’altro canto, la sua incapacità di incidere sulla realtà per mutarla imprimendole un corso diverso. Come già Okonkwo nel romanzo Il crollo di Chinua Achebe (1958), Fama si autodistrugge con un gesto clamoroso e quasi pirotecnico: ma qui non siamo più in epoca coloniale, e il malessere della società non può più venire imputato ai dominatori europei. Il male ha ormai corroso la nuova nazione africana guidata da un dittatoriale Houphouët-Boigny cui Kourouma allude apertamente.

AHMADOU KOUROUMA era nato intorno al 1927, in un potente clan malinke. Rimasto orfano, era stato cresciuto da uno zio che faceva l’infermiere, ma era soprattutto un grande cacciatore, e portava con sé il bambino nella foresta. Aveva vissuto fra Costa d’Avorio, Camerun, Togo e Francia, ma aveva girato il mondo. Dopo gli studi a Bamako, in Mali, aveva fatto il servizio militare coi francesi, in colonia, e avendo rifiutato di partecipare alla repressione d’una sommossa popolare era stato inviato per punizione a combattere in Indocina. Erano gli anni in cui si preparava la guerra del Vietnam: il giovane si trova sbalzato in un caos drammatico, proprio come accadrà all’eroe del suo romanzo Allah non è mica obbligato (2000), ragazzo soldato travolto da vicende più grandi di lui, attore suo malgrado in una guerra insensata. Ritornato in Africa, Kourouma vive l’indipendenza della Costa d’Avorio nei primi anni ’60.

Ma anche questa rivela presto aspetti negativi: tirannia, corruzione, ingiustizia. Kourouma reagisce, combatte contro quello che sta diventando un regime. E, mentre per guadagnarsi la vita diventa consulente economico finanziario, comincia a scrivere, creandosi un’arte tutta sua, originale e potente. Nel 1968 compare I soli delle indipendenze. «Ma allora che cosa ci hanno portato le indipendenze?», dice il protagonista Fama. «Nulla, a parte la carta d’identità e la tessera del partito unico». La caustica descrizione schernisce sia la borghesia ingorda, che ha preso in mano il paese, sia i capi tradizionali corrotti e servili, incapaci di ripensare il proprio ruolo e abbandonare i privilegi in favore del bene della collettività.

Kourouma pagò cara l’opposizione al regime e le scelte politiche (era entrato nel Partito Comunista). Dovette lasciare la Costa d’Avorio, e passò molto tempo prima che comparisse il secondo romanzo, Monnè, oltraggi e provocazioni (1990). Ambientato in epoca coloniale, Monnè persegue la vena di feroce sarcasmo dell’opera prima, e Kourouma emerge come erede degli antichi griot, cantore audace e irriverente della storia africana, teso a denunciare i potenti ed evocare un intero popolo, quello di Soba, il cui re Djigui Keita diviene complice del francesi (chiamati «nazareni», cioè cristiani).

Del 1998 è il terzo romanzo, Aspettando il voto delle bestie selvagge, e del 2000 Allah non è mica obbligato. Il primo è una travolgente invettiva contro un orrendo tiranno africano, Koyaga, in cui si proiettano personaggi della storia recente, da Amin Dada a Bokassa, grottesco imperatore del Centro Africa. La narrazione ritmata si articola in sei «veglie» cantate da un poeta orale e percorre la storia dell’Africa e del colonialismo in un crescendo di furia che risponde però all’esigenza di spiegare l’Africa a se stessa, con le sue mitologie e filosofie. Allah non è mica obbligato è l’amarissima e demenziale storia contemporanea di un ragazzo soldato in Liberia, che esordisce con uno sberleffo da pagliaccio: «E per cominciare… e uno!… Mi chiamo Birahima e sono p’tit nègre. Non perché sono nero e bambino. No! Sono p’tit nègre perché parlo male il francese. Proprio così, davvero. Se si parla male il francese, si dice che si parla p’tit nègre, anche se si è adulti, anche vecchi, anche arabi, cinesi, bianchi, russi, anche americani, si è sempre e comunque p’tit nègre. Così vuole la legge del francese quotidiano».

L’IDEA DI IMPERNIARE la narrazione sulla figura del ragazzo soldato ha il più illustre precedente nel romanzo Sozaboy del nigeriano Ken Saro-Wiwa (1985), che dalla vicenda d’un soldier boy travolto dalla guerra civile trasse una frenetica storia impastata di linguaggi ibridi e invenzioni espressive. Infine, Kourouma ha ottenuto successo e premi anche in Francia, mentre consolidava il suo ruolo di intellettuale pubblico unendo la propria voce a quella di un gruppo di scrittori che si recarono in Ruanda dopo i massacri di hutu e tutsi e ne scrissero in toni drammatici.

Il grande scrittore malinké è venuto più volte in Italia, anche al Festivaletteratura di Mantova, dove ha incantato tutti con le sue storie dei «mangiatori d’anime» appollaiati sugli alberi, in agguato, pronti a balzare sui passanti e farne preda.

 

CaLibro Africa Festival a Città di Castello

Dal 28 settembre al 1 ottobre si svolge a Città di Castello il CaLibro Africa Festival. Fra gli ospiti internazionali il vincitore del Prix Goncourt Mohamed Mbougar Sarr (sabato 30 ore 21 al Teatro degli Illuminati), il vincitore del Booker Prize Damon Galgut (venerdì 29 ore 21 al Teatro degli Illuminati) e la vincitrice del Nigeria Prize for Literature Cheluchi Onyemelukwe-Onuobia 1 ottobre ore 18 – Giardino della Pinacoteca). Fra gli ospiti italiani Igiaba Scego, Chiara Piaggio, Anna Maria Gehnyei, Ubah Cristina Ali Farah, Djarah Kan, Tommaso Giartosio, Pap Khouma, e molti altri. Non mancano una rassegna cinematografica a cura di Alessandro Jedlowski, e la sezione «Piccoli CaLibri» con laboratori e letture per bambini e bambine. Il programma completo su calibrofestival.com