È fuori discussione che il 6 novembre i neri voteranno «contro Trump»: contro i candidati del suo partito, conquistando alcuni governatorati statali e soprattutto contribuendo all’atteso rovesciamento della maggioranza nella Camera dei rappresentanti (non del Senato, a causa della particolare distribuzione geografica dei 35 seggi senatoriali in palio in queste elezioni). Lo stesso faranno gli ispanici che, più dei neri, stanno subendo – anche in questi giorni – l’attacco della sua demagogia feroce.

Nelle presidenziali del 2016 neri e ispanici avevano contribuito alla vittoria di Hillary Clinton nel voto popolare, ma non era bastato. Ora tutte le previsioni indicano non solo che il voto afroamericano e latino andrà in stragrande maggioranza ai candidati democratici, ma anche che la partecipazione al voto di entrambi sarà più alta del solito.

COME È NOTO, nelle elezioni di midterm è da decenni che la partecipazione al voto degli statunitensi non supera il 38 per cento, mentre quando si vota anche per il presidente la partecipazione è di quasi venti punti più alta. Ora è difficile dire se i bianchi (maschi) correranno alle sezioni elettorali più per sostenere i repubblicani oppure per votargli contro. Più semplice ipotizzare che le donne, bianche e nere, voteranno in maggioranza contro i candidati di quel partito, per esprimere la loro contrarietà nei confronti dell’offensivo maschilismo di Trump. Lo stesso faranno i maschi neri, per ragioni diverse.

DONNE E UOMINI neri avevano già votato per Hillary Clinton due anni fa, ma la percentuale del loro voto per lei era stata di otto punti percentuali più bassa di quando avevano votato per Obama nel 2008 (88 per cento contro 96). Inoltre, aveva votato il 60 per cento di loro e il 45 per cento degli ispanici. Clinton non era Obama. Ora i sondaggi dicono che per il 90 per cento degli elettori neri il paese è diventato più razzista, che più dell’80 per cento dei neri si sentono offesi da Trump e vedono le elezioni come un referendum contro di lui. I latinos, a loro volta, sono destinatari degli insulti quasi giornalieri di Trump. Per questo sia la partecipazione, sia il voto ai candidati democratici dovrebbero risalire: in risposta al sessismo di Trump, da cui nessun candidato repubblicano si è dissociato, e al suo razzismo – rilegittimato in questi ultimi anni nella società e brutale nelle violenze poliziesche – che hanno continuato a oltraggiare donne e uomini delle due minoranze.

I MASCHI NERI sono la componente più sindacalizzata all’interno del mondo del lavoro e le donne nere, insieme con le ispaniche, sono protagoniste nelle lotte per il salario nei fast food e nei servizi poveri. Per gli uni e le altre anche Black Lives Matter ha rappresentato una sorta di stella polare etica e politica. Non c’è dubbio che la loro lontananza dalle urne sia stata dovuta in passato alla convinzione che il loro voto fosse irrilevante e che comunque la loro situazione non sarebbe cambiata, quali che fossero il presidente e la maggioranza nel Congresso. In questo si esprimeva la più che motivata diffidenza nei confronti anche del Partito democratico. Solo la prospettiva di eleggere Obama cambiò quell’atteggiamento nel 2008 e 2012.

ORA, DOPO due anni di Trump, l’opposizione alle politiche sue e di un Congresso interamente a maggioranza repubblicana li rimotiverà alla partecipazione elettorale. E l’incoraggiante conferma che i «trumpiani» possano essere sconfitti è venuta dal successo dei candidati (bianchi) Doug Jones, moderato, e Ralph Northam, «filo-immigrazionista», contro i repubblicani sostenuti da Trump nelle elezioni a senatore e a governatore del 2017 in Alabama e Virginia. Altre significative conferme potrebbero venire ora, ad esempio, grazie alle candidature al Congresso di probabili vincitrici come le nere Arianna Pressley in Massachusetts e Jahana Hayes in Connecticut, ma anche come la giovanissima latina Alexandria Ocasio-Cortez a New York o la musulmana Rashida Tlaib in Michigan e dalle candidature di uomini e donne nere per posti di governatore, come Andrew Gillum in Florida; Ben Jealous in Maryland e soprattutto Stacey Abrams in Georgia.

LE SOLLECITAZIONI ad andare a votare si sono fatte sempre più pressanti nelle ultime settimane. E oltre che sui mali del trumpismo l’accento viene messo sulla necessità di scavalcare i fossati che vengono frapposti tra gli elettori e il voto. I governatori repubblicani di molti stati hanno perseguito negli anni scorsi una politica deliberata di esclusione dal voto di afroamericani, ispanici e poveri, riconfigurando i distretti elettorali, riducendo il numero dei seggi elettorali (esempio: a Dodge City, Kansas, 13.000 abitanti e una sola sezione, posta fuori città), gli orari delle loro aperture e il personale in servizio, introducendo inusitate richieste di nuovi documenti di identità e in altri modi ancora. Sono state decine le leggi statali varate a quel fine nei soli ultimi due anni, e anche la Corte suprema ha cancellato alcune delle protezioni del diritto di voto introdotte in seguito alla condotta spudoratamente discriminatoria praticata in vari stati del Sud. Tuttavia, nonostante l’incremento delle forme di sabotaggio istituzionale, il 6 novembre prossimo molti si aspettano – e altrettanti temono – che la partecipazione al voto di neri e latinos aumenti.