Il Covid-19 in Africa non ha lo stesso volto che ha in Europa e in altre parti del mondo. E questo non solo perché ci sono diversi ceppi (alcuni studi ne individuano più di trenta), ma anche perché i contesti sono totalmente diversi e, quindi, diverse e diametralmente opposte sono le possibilità, le capacità e le risorse per il suo contenimento e il suo trattamento. In Africa, poi, il virus ha ben 54 volti, tanti quanti i Paesi che compongono questo variegato continente. In Burkina Faso il contesto culturale-tradizionale, la situazione socio-economico-sanitaria e di sviluppo è totalmente diversa dal Sudafrica o dalla Tanzania o dagli altri Paesi dell’Africa dell’ovest. Non c’è un unico piano di prevenzione valido per ogni dove.

IL NOSTRO NEMICO sembra essere atterrato in Burkina intorno ai primi di marzo: il primo caso è stato registrato il 9. In 50 giorni sono stati confermati 638 casi, la maggior parte a Ouagadougou, la capitale. Nessun caso confermato in brousse o in piccoli villaggi: non ci sono o non si conoscono? Questa la domanda che fa trepidare un po’ tutti. Il numero delle guarigioni cresce di giorno in giorno: 476 persone testate positive e sottoposte a trattamento hanno lasciato l’isolamento per riunirsi alla famiglia o sono state trasferite in altri reparti ospedalieri. In totale si contano 42 morti (il 6,6%): meno di uno al giorno.

Insomma, in base ai dati ufficiali, sebbene siano i più alti dell’Africa occidentale, il contagio sembra procedere molto lentamente. Il Covid-19 al momento non si è mostrato aggressivo come in Europa. Un caso? Una mutazione? È perché qui in Africa siamo abituati a contrastare la malaria e ad assumere farmaci a base di clorochina? Il caldo, come sfianca tutto e tutti, ha sfiancato pure lui? Al suo arrivo si registravano dai 40° gradi in su. Mi viene da pensare all’abitudine dei burkinabè, di contrastare epidemie di diversa entità: dell’ebola alla meningite, alla varicella, alla rosolia (in questi giorni sono stati registrati molteplici casi di varicella e rosolia). E all’uso costante della fitoterapia (qui chiamata farafin-fura) per la prevenzione di ogni tipo di malattia.

Quando il Covid-19 è arrivato in Burkina aveva già fatto il giro del mondo, non siamo stati colti di sorpresa. Si sapeva già quali mosse evitare e come incastrarlo. Il Burkina, come altri Paesi africani, si è mosso su due piani, ambedue iscritti nel capitolo “prevenzione”.

QUI PIÙ CHE ALTROVE bisogna “prevenire” perché non ci sono strumenti per “curare”. E stavolta, forse, la mancanza si è rivelata vincente. Forti della consapevolezza di quanto accadeva in Europa e nel resto del mondo abbiamo avuto il tempo di prepararci. Anche l’Africa ormai è connessa. Anche qui si legge, si naviga, si fanno ricerche, si ascolta la radio e non solo per la musica. Impoveriti sì, ma connessi.

Due piani, quindi: informazione e contenimento. Prima del 9 aprile, sono iniziati gli spot in tutte le lingue locali con tre comandamenti da seguire: lavarsi le mani spesso e bene; usare la mascherina, o meglio il cache-nez come si chiama qui; mantenere le distanze, non stringersi le mani e non darsi i consueti 4 baci di accoglienza.
La gente, poiché seguiva alla tv le notizie provenienti dall’Europa, ha bloccato le mani che istintivamente andavano a stringere altre mani incontrate per strada, al mercato, nel vicinato. Qui il saluto è sacro. È una liturgia, un rituale. Non si può comprendere se non si vive. Eppure abbiamo rinunciato subito, senza protestare né recriminare.

ALTROVE, NONOSTANTE i consigli, si facevano le ole allo stadio e i party di compleanno. Nonostante il caldo afoso qui si usciva con i cache-nez e chi ha potuto ha subito messo davanti alla porta della propria bottega un bidone di acqua e del sapone per lavarsi le mani. Poi il contenimento: qui è la lungimiranza dei poveri. Se il virus si diffonde a macchia d’olio o di leopardo e i malati si aggravano, non c’è possibilità di assisterli con sofisticate apparecchiature mediche. Posti limitati negli ospedali e scarsi mezzi inducono a prevenire. Scatta così il confinamento: scuole chiuse dal 16 aprile; coprifuoco e mercati chiusi subito dopo; uffici e amministrazione con personale e orario ridotto.

Parola d’ordine: stare il più possibile a casa. Difficile, Problematico, ma non impossibile. Solo che il rispetto di questa raccomandazione ha un alto prezzo: qui si mangia solo se si lavora. Lo Stato chiede sacrificio e in cambio offre agevolazioni per tutti e sostegno per le categorie più colpite: innanzitutto i poveri che vivono alla giornata, ma anche commercianti, ristoratori, trasportatori. Non è facile. La gente, in un passa parola muto, si dice con gli occhi: «Se non ci uccide il virus ci uccide la fame».

LA FAME, QUELLA CHE UCCIDE già in abbondanza in Burkina e in Africa. Quella che è alla base di tante malattie che poi uccidono. Quella che uccide ancor più in tempo di Covid-19. La fame fa consumare tutto e cosa si semina da qui a qualche giorno quando inizierà la stagione delle piogge? Non ci sono risparmi e tutto costa caro.

Arriva il Ramadan e il mese di digiuno della religione più diffusa nel Paese scandisce e condiziona la vita sociale. Il coprifuoco, ancora necessario ma non più proponibile dalle 19, inizia ora alle 21. Il bisogno reale della gente e la temuta reazione a lungo andare costringe a rivedere la chiusura dei mercati che si riaprono un po’ ovunque ma con delle misure di precauzione. L’indicazione ufficiale è di mantenere almeno due metri tra una postazione e l’altra e di ricevere i clienti uno alla volta. La realtà è un po’ diversa, ma c’è paura e si cerca di seguire al massimo i consigli. L’annunciata riapertura delle scuole preoccupa, perché si annunciano misure di sicurezza ma non si vede la loro realizzazione, a partire dall’intento di fornire ogni allievo, ogni insegnante e tutto il personale scolastico, di due mascherine lavabili.

È STATO DATO SCACCO MATTO al nostro Covid-19 o lui prepara una mossa che ci inchioderà all’angolo? Vedremo da qui alle prossime settimane. La chiusura intanto ha piegato ulteriormente il Paese messo già in ginocchio dal terrorismo islamista e dalle migliaia di profughi. Già, i profughi radunati e accolti in campi improvvisati, sovraffollati, promiscui, che si allagano alla prima pioggia.

La quotidianità che si prospetta ci vede costantemente col viso coperto perché l’uso della mascherina è stato dichiarato obbligatorio nelle scuole, nei mercati, sui bus, nei servizi pubblici. Sarà possibile questo? Immagino chi lavora nei cantieri o nei campi sotto il sole cocente, imbavagliati con la mascherina.

IL BURKINA SOFFRE ed è schiacciato anche dal debito pubblico, quel debito denunciato coraggiosamente alla metà degli anni ’80 dall’allora presidente Thomas Sankara come ingiusto, schiavizzante, depredante. Lui sul tavolo del debito e dell’impoverimento dell’Africa ci ha lasciato la vita e il sogno di un intero continente libero, autonomo, ricco di se stesso.

Ma questa epidemia di Covid-19 si è rivelata anche un poco amica, imponendo una battuta di arresto al nostro delirio di onnipotenza. Ci ha ricordato che la corsa non serve e non sempre rende felici, che la terra va rispettata, che siamo figli e quindi fratelli, che un doppio filo rosso lega ogni parte del mondo all’altra, che non c’è andata senza ritorno, che l’eccessivo sviluppo di una parte del mondo e l’impoverimento dell’altra parte non è equilibrio, che ogni istante va vissuto come se fosse l’ultimo.

 

L’autrice di questo articolo vive da quasi trent’anni in Burkina Faso, dove gestisce una casa famiglia in un villaggio non distante da Bobo Djoulasso, la seconda città del paese