«La pace è giustizia e viceversa. Non più darsi pace senza giustizia né uguaglianza senza pace». Ormai diversi mesi fa abbiamo incontrato nel suo ufficio, nella parte più alta di Bamiyan – la cittadina a maggioranza hazara dell’Afghanistan centrale – la governatrice della provincia, Habiba Sarabi. Che non ha esitato: pace e giustizia vanno perseguite insieme, ci ha spiegato questa donna energica e determinata – l’unica in tutto il paese a ricoprire un simile incarico -, perché l’una rafforza l’altra. Una pace che sia ottenuta a scapito della giustizia, ha precisato, è priva di legittimità, fragile. Se le richieste di giustizia vengono disattese o subordinate alla ricerca della pace, se quest’ultima viene costruita ignorando i crimini passati e quelli attuali, non solo sarà effimera, ma alimenterà nuovi conflitti e violenze.
Una posizione chiara la sua. Quella di chi vede pace e giustizia «come elementi intrinsecamente legati l’uno all’altro», per usare le parole di Qader Rahimi, il responsabile per l’area occidentale della Commissione indipendente per i diritti umani, l’organismo che ha il difficile compito di promuovere la cultura dei diritti in un contesto come l’Afghanistan. Lo abbiamo incontrato a Herat qualche tempo dopo aver intervistato Habiba Sarabi, di cui Qader Rahimi condivide il punto di vista: «La guerra è come un’epidemia, che bisogna affrontare individuandone le cause: la più importante, in Afghanistan, è la mancanza di giustizia». Per Qader Rahimi, un uomo che all’impegno professionale sui diritti umani accompagna un’inaspettata attività di scrittore satirico, se oggi nel suo paese si cercasse solo la pace, se si puntasse soltanto a un compromesso tra i movimenti antigovernativi e il governo Karzai, si otterrebbe forse un cessate il fuoco momentaneo ma rimarrebbero irrisolte – latenti e pericolose – le ragioni strutturali del conflitto. Tra queste, un posto di rilievo va assegnato all’eredità dei conflitti passati: un grumo di sofferenze, abusi, crimini di guerra che continua a condizionare il presente, in termini politici e sociali, psicologici e culturali. È questa una delle percezioni più diffuse che emerge dalla ricerca condotta da chi scrive per il network «Afgana» (www.afgana.org), che verrà presentata a settembre: la necessità di fare i conti con il passato. Su questo, sul senso di ingiustizia e spesso di rancore che ne deriva, sul fatto che i crimini passati siano un ostacolo alla risoluzione del conflitto attuale si dicono concordi tutti coloro che abbiamo incontrato in sette diverse province (Balkh, Bamiyan, Farah, Faryab, Herat, Kabul, Nangarhar).

La giustizia come fine

Nella provincia di Bamiyan, la cosa non è così sorprendente: qui la comunità hazara, una minoranza, sente di essere stata marginalizzata, contesta il dominio secolare dell’etnia pashtun e ricorda con vivido orrore i crimini compiuti dai Talebani quando governavano sotto il vessillo dell’Emirato islamico. Quei turbanti neri che oggi assicurano, per bocca del mullah Omar, di «essere pronti a condividere il potere» e di volere un «sistema inclusivo» sono gli stessi – ricordano da queste parti – che uccidevano senza pietà. Quel tempo è passato, ma i ricordi rimangono, dolorosi. E con questi il sospetto e la consapevolezza che «la pace non può essere ottenuta a tutti i costi», come sostiene Ismail Zaki, coordinatore regionale del Civil Society and Human Rights Network, una delle reti più estese di associazioni della società civile. Zaki, un uomo basso e cortese, fa sua la tesi della governatrice Sarabi, dicendoci che «la pace senza giustizia non è vera pace e non è stabile». Ma compie un passo ulteriore, dicendo che «la giustizia è più importante della pace, perché la comprende». Non solo un mezzo, dunque, un tramite per ottenere una pace duratura, solida perché capace di tenere conto delle aspettative e delle richieste della popolazione, ma un fine in sé.
Il suo – spiega Zaki – non è idealismo. Sa bene che in Afghanistan la parola giustizia è un guscio vuoto, riempito dalla retorica della comunità internazionale ma privo di sostanza reale. Eppure per lui la giustizia è perfino più importante della pace. Perché? Perché quel che manca in Afghanistan non è la pace «politica», la pace tra gli eserciti che si combattono sul campo, ma la pace «sociale». Pensare che la pace «politica», dall’alto in basso, possa portare la pace «sociale» è assurdo, afferma Zaki. L’unica vera pace, per lui, è quella che nasce dalla capacità di «superare e ricomporre le fratture tra le varie comunità e le divisioni del passato». «Senza affrontare il passato, non si va da nessuna parte», conferma a Kabul Asif Karimi, un signore alto e distinto che lavora per The Liaison Office, un’associazione che promuove il dialogo in alcune delle aree più difficili del paese.

I signori della guerra

Come farlo, però, nessuno lo sa. Affrontare i crimini passati, infatti, vuol dire una cosa: incolpare apertamente, giudicare ed eventualmente punire i «signori della guerra», formula generica ma efficace per descrivere quei leader politici e militari che prima hanno sventrato il paese e poi, grazie al sostegno della comunità internazionale, hanno istituzionalizzato il proprio potere. Oggi, con i kalashnikov più silenziosi di prima, non sono meno pericolosi, potenti e temuti. Affrontarli, appare un compito titanico: «Hanno commesso crimini orribili in passato e continuano a commetterli. Sono al potere, in posizioni chiave. La domanda non è ‘chi sono’, ma ‘come portarli davanti alla legge’», precisa Raz Mohammad Dalili, direttore di Sanayee Development Organization. «La gente è stufa – ribadisce Asif Karimi di The Liaison Office – perché i criminali hanno più potere di prima, sottraggono risorse al paese e ignorano ogni regola», ribadisce. Per questo in molti, pur auspicando che i criminali vengano puniti, si dichiarano scettici: «All’inizio del primo governo Karzai c’erano maggiori spazi di manovra – spiega Gholam Hossein, direttore dell’organizzazione Shohada a Bamiyan -, ma non è stato fatto nulla. Oggi i criminali sono più forti e chi ha subito abusi non ha gli strumenti per chiedere giustizia».

Le responsabilità

La responsabilità è anche degli «stranieri». «La comunità internazionale è stata disonesta. Altrimenti non avrebbe permesso a personaggi come Fahim e Khalili (i due attuali vice-presidenti, ndr), di ottenere posizioni così importanti», spiega con risentimento Baz Mohammad Abid, un giornalista di Radio Mashal che incontriamo a Jalalabad. «Viene ricompensato chi ha commesso più crimini. I gangster e i criminali che sono al governo vengono chiamati ‘i nostri mujaheddin’». Imputa una chiara responsabilità sia al governo Karzai sia alla comunità internazionale anche Sima Samar, capo della Commissione indipendente dei diritti umani, a cui da alcuni mesi il governo impedisce di rendere pubblico il Conflict Mapping Report, un dossier che, ci spiega nel suo ufficio di Kabul, «individua gli abusi compiuti in passato». Il rapporto è stato coordinato da Nader Nadery, un ex membro della Commissione silurato pochi mesi fa da Karzai, il quale mantiene il potere di nominare i componenti della Commissione. «La nostra Commissione alcuni anni fa ha realizzato un sondaggio, A Call for Justice, che dimostra che la popolazione vuole giustizia; abbiamo anche lavorato a un Action Plan per la Transitional Justice. Alcuni punti sono stati realizzati, altri invece no, a causa del mancato impegno da parte del governo e a causa del disinteresse della comunità internazionale». Per Sima Samar, «entrambi avevano i loro ‘fidanzati’ da difendere, tra cui i signori della guerra. Hanno preferito lavarsene le mani, pensando che la questione della giustizia si esaurisse con la rimozione dal potere dei Talebani».

I tempi della giustizia

Convinti che ci sia bisogno di verità e giustizia sui crimini passati, scettici sulla possibilità di ottenerle in tempi brevi, gli afghani si dividono sul come affrontare una situazione così complicata, con un governo corrotto e una comunità internazionale ritenuta complice o, al meglio, omertosa. Per qualcuno, di giustizia si potrà parlare, ma solo più avanti. «Il passato potrà essere affrontato soltanto quando il governo sarà considerato legittimo da tutti. Prima di allora, qualunque decisione al riguardo non farà che alimentare nuovi conflitti», sostiene per esempio il poeta Mohammed Asif Samin, che a Jalalabad gode di un forte rispetto soprattutto tra gli studenti universitari. Per Asif Amin i tempi non sono ancora maturi per aprire il capitolo della giustizia sui crimini passati: se giustizia vuol dire ricostruire la fiducia tra le comunità che si sono combattute – questa la posizione di Asif Amin – per farlo occorre un attore che goda della fiducia generale. Se lo facesse il governo Karzai, corrotto e privo di consenso, si rischierebbe di esacerbare i conflitti. Che ci sono. E sono difficili da superare. Anche perché «quelli che per alcuni sono dei criminali, per altri sono eroi», spiega Amir Sharif, lettore in Sociologia all’Università di Bamiyan. «In certe parti del paese non si può dire che Massud (l’ormai leggendario ‘Leone del Panshir’, ndr) fosse un criminale, né qui a Bamiyan che lo sia stato Mazari (fondatore e leader del partito Hezb-e-Wahdat, ndr), e questo vale per molti altri. Per ora è meglio puntare all’unità nazionale. Si potrà parlare di una corte speciale di giustizia quando ci saranno istituzioni solide, pace, sicurezza e stabilità», conclude il giovane studioso.
Quel che a lui sembra ovvio, è del tutto sbagliato per altri. «In Afghanistan ci portiamo appresso i retaggi delle generazioni e dei conflitti precedenti. E’ mancato quel processo di riconciliazione nazionale avvenuto altrove. Perché è indispensabile attuarlo? Perché è giusto e perché dà alla gente la sensazione che il sistema si prende cura di te e risponde alle tue richieste. Ne guadagneremmo in stabilità», spiega Ikram Afzali, che a Kabul lavora per l’associazione Integrity Watch. Per Afzali, se il governo appare illegittimo agli occhi degli afghani è proprio perché ne ignora le richieste di giustizia. Occuparsene, lo renderebbe più forte e ne accrescerebbe il consenso. Inoltre, ciò potrebbe favorire la coesione e la riconciliazione, sostiene Sima Samar: «Ogni riconciliazione sociale e politica passa per l’accertamento dei fatti. In caso contrario, si potrà ottenere un semplice accordo, non una vera riconciliazione. La difficoltà di pubblicazione del nostro rapporto sui crimini passati dimostra che da parte del governo c’è una vera e propria politica di negazione. C’è l’idea che far conoscere la verità complichi la situazione. Noi crediamo il contrario. Se devi riconciliarti con tuo fratello, hai bisogno di conoscere e riconoscere la verità». Per la responsabile della Commissione per i diritti umani, se usato in modo appropriato anche quel rapporto potrebbe essere utile alla riconciliazione nazionale: «Ogni comunità, ogni gruppo etnico porta con sé un carico di sofferenza. Abbiamo tutti sofferto, in diversi periodi storici. Questa sofferenza comune può essere usata per guardare avanti, al futuro».

(terza puntata, continua)