Una settimana fa, lunedì 7 giugno, sono rimasto colpito dal linguaggio diretto dell’editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della Sera. Il titolo con un «occhiello» generico: «La guerra, i doveri». Il messaggio: «Salviamo chi ci aiuta a Kabul». Ma la vera notizia, un altra. Mieli parte dalla «scarsa attenzione con cui i media occidentali seguono l’evacuazione militare dell’Afghanistan che dovrebbe essere portata a termine il prossimo 11 settembre».

La data fatidica che vent’anni fa, con l’attacco alle torri gemelle, diede inizio anche all’occupazione dell’Afghanistan dei Talebani, responsabili di aver ospitato Bin Laden con Al Qaeda.

La guerra degli occidentali avrebbe dovuto garantire libertà agli afghani e alle afghane. «Le cose purtroppo – nota malinconicamente l’autore – non sono andate come era negli auspici dell’Onu: nessuno di quegli obiettivi è stato raggiunto, la guerra l’abbiamo perduta e adesso dobbiamo prepararci ad assistere a scene consuete in questo genere di frangenti. Tutti coloro che in qualsiasi modo hanno aiutato il regime dei “liberatori” avranno paura di subire ritorsioni e si accalcheranno ai cancelli delle nostre ambasciate per implorarci di non essere abbandonati nelle grinfie dei vincitori».

Non si può che essere d’accordo con Mieli sul fatto che l’Italia, come gli Usa e gli altri paesi della coalizione che ha condotto la guerra, debba farsi carico il più possibile dell’incolumità di quelle persone. Ciò che colpisce, oltre alle virgolette al termine liberatori, è quell’esplicito, fattuale «la guerra l’abbiamo perduta».

L’articolo, dopo aver indugiato sui pericoli enormi che ora corrono gli afghani «collaborazionisti», e soprattutto le donne che hanno creduto di poter vivere con una maggiore libertà (già si contano i femminicidi per questo tipo di ritorsioni), si chiude con una considerazione singolare: aver perso la guerra sarà «poca cosa» in confronto «all’onta di aver lasciato a pagare l’intero prezzo della sconfitta coloro che sono stati decenni al nostro fianco».

Poca cosa?

Qui si parla del fatto che il paese militarmente e economicamente più potente del mondo, aiutato dagli altri paesi più «sviluppati», tra cui il nostro, ha combattuto per venti anni ripetendo che la guerra non serviva solo a sterminare Al Qaeda e il terrorismo di matrice islamica ma, anche, ad assicurare agli afghani una vita libera e civile.

Non solo i media, e la politica, occidentali parlano poco della ritirata da Kabul ma quasi nessuno sembra aver voglia di fare e farsi qualche domanda. Come è stato possibile questo disastro? Quali errori di valutazione politica, strategica, militare sono stati fatti? E da chi? E perché?

Non sono interrogativi ovvii?

Anche un altro giornalista molto noto, Francesco Merlo, si occupava del tema rispondendo a un lettore su la Repubblica di domenica scorsa: «… il numero delle persone a rischio è incalcolabile e peserà sulla coscienza e sulla reputazione militare dell’Occidente. In Afghanistan abbiamo perso e dunque “la storia non siamo noi…”».

Ma l’esito molto poco «onorevole» di questa guerra non sembra consigliare un cambio di giudizio sul rapporto tra la bruta forza delle armi e la forza simbolica della politica.

Sulle stesse pagine il direttore Molinari era tutto preso da passione interventista visto che «la seconda Guerra fredda – ha scritto riferendosi a Usa e Cina – è in pieno svolgimento e, come la prima, ha un cruciale palcoscenico europeo». E ancora: «L’Italia di Mario Draghi sarà presto chiamata a compiere scelte non indifferenti».

Speriamo non accada in quell’«ora segnata dal destino», «l’ora delle decisioni irrevocabili».