La guerra americana in Afghanistan è chiusa. Il ritiro completo e incondizionato avverrà entro l’11 settembre 2021, ventesimo anniversario dell’attacco alle Torri gemelle, preludio della guerra globale al terrore. È l’annuncio del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, che ieri – troppo tardi per darne conto in modo esaustivo – ha tenuto una conferenza stampa per spiegare le ragioni della storica decisione. «Sono il quarto presidente a decidere sulla presenza delle truppe americane in Afghanistan. Due Repubblicani. Due Democratici. Non passerò la responsabilità a un quinto». Così Biden secondo le anticipazioni della Casa Bianca.

Le residue truppe statunitensi – 2.500 ufficialmente, 3.500 secondo un’inchiesta del New York Times – verranno dunque ritirate, portando a compimento il disimpegno iniziato da Donald Trump, l’artefice dell’accordo bilaterale tra Stati Uniti e Talebani firmato a Doha nel febbraio 2020.

Quell’accordo prevedeva un legame, per quanto equivoco e con margini ampi di interpretazione, sfruttati dai Talebani, tra il completamento del ritiro e l’avanzamento del processo di pace tra i militanti islamisti e il «fronte repubblicano», iniziato a Doha nel settembre 2020.

La decisione di Biden invece è incondizionata. La guerra afghana è chiusa, a dispetto di ciò che avverrà sul campo militare e al tavolo negoziale. Biden, infatti, è convinto che non si possa «continuare il ciclo con cui estendiamo o espandiamo la nostra presenza militare in Afghanistan sperando di creare le condizioni ideali per il nostro ritiro, aspettando un risultato diverso».

Il risultato, Biden non lo dice, è la sconfitta degli Stati Uniti. La vittoria dei Talebani. Ai quali Biden – scegliendo l’11 settembre come data ultima del ritiro – fornisce un’occasione per celebrare la vittoria del loro jihad. I Talebani, a cui proprio Washington ha attribuito una patente di legittimità diplomatica con l’accordo di Doha, sono talmente forti da permettersi di tirare ancora la corda.

Sembrava che avessero acconsentito al posticipo di 4 mesi, portando a casa altre concessioni. E invece ieri il portavoce ufficiale ha dichiarato che, fino a quando non si ritirerà l’ultimo soldato straniero, non parteciperanno ad alcuna conferenza di pace. E che una data del ritiro già c’era: l’1 maggio 2021. Se non verrà rispettata, i Talebani saranno liberi di agire coerentemente.

Se adottassero una postura militare ancora più aggressiva, a rimetterci non sarebbero le truppe straniere, contro le quali ormai combattono poco o niente. Ma i soldati afghani e i civili.
Il presidente afghano Ashraf Ghani ha parlato ieri al telefono con Biden. Dichiara di rispettare la decisione americana. E si dice convinto che le forze di sicurezza locali saranno in grado di «difendere il nostro popolo e il nostro Paese».

I dati resi pubblici ieri da Unama, la missione dell’Onu a Kabul, dicono il contrario: nei primi 3 mesi del 2021, i ricercatori dell’Onu hanno registrato 573 morti e 1210 feriti, per una crescita complessiva del 29% rispetto allo stesso periodo del 2020. Per le donne, l’aumento è del 37%, del 23% per i bambini.

«Imploro le parti in conflitto a trovare urgentemente un modo per fermare la violenza», ha sostenuto Deborah Lyons, la rappresentante speciale per l’Afghanistan del Segretario generale dell’Onu. Mentre ieri a Bruxelles il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, prima dell’incontro con i ministri della Difesa e degli Esteri della Nato, si sono detti concordi: ce ne andremo via tutti insieme dall’Afghanistan.

Anche l’Italia. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ieri ha detto di condividere anche lui «la linea del cambio di passo in Afghanistan». «Si va verso una decisione epocale», ha sostenuto Di Maio, che meno di 3 settimane fa assicurava «l’impegno dell’Italia in Afghanistan».