Va dato atto a Sergio Chiamparino e Chiara Appendino di essere stati conseguenti, politicamente e amministrativamente, alle loro prese di posizione. Il presidente regionale piemontese e la sindaca di Torino, azionisti di riferimento dell’iniziativa al Lingotto, hanno chiesto di mettere fuori la casa editrice Altaforte perché il suo «conductor» non perde occasione di fare apologia del fascismo.

Francesco Polacchi, questo il nome del proprietario di Altaforte, ha usato la bacheca di un social network per minacciare di aprire comunque lo stand e di denunciare gli organizzatori del Salone se verrà davvero messo fuori. Insomma, l’incidente sarebbe chiuso. Rituali le prese di posizione di alcune testate giornalistiche e dei loro opinion makers di destra che continuano a tuonare contro una presunta vittoria della censura (il discorso sulla libertà di espressione e sulla censura è un tema troppo serio per lasciarlo gestire solo alla destra), dimenticando che l’apologia di fascismo è un reato. Ma per chi strombazza ogni giorno sul valore sacro delle leggi, si può dedurre, ci sono due pesi e due misure. Marco Revelli, a ragione, dopo i fatti di Casal Bruciato, ha scritto che ciò che è accaduto e sta accadendo nel quartiere romano è molto più offensivo rispetto lo stand affittato a suon di euro ad Altaforte. Su questo i giornali di destra preferiscono glissare: fanno cronache «oggettive» sulle azioni dei camerati di CasaPound unite alla denigrazione per le manifestazioni degli antifascisti. Un riflesso condizionato del migliore dottor Stranamore. Al Salone internazionale del libro si potrà respirare un’aria meno inquinata ma sarebbe un errore ritenere che il Lingotto sia il centro del mondo e che con l’esclusione della casa editrice di CasaPound il problema dell’attivismo neofascista sia risolto.

Quel che colpisce della vicenda torinese è infatti la messa in rilievo di una terra di nessuno dove attività squadristica contro migranti e militanti della sinistra, attivismo contro i migranti – i picchetti contro i rom assegnatari di un alloggio popolare in nome della paccottiglia del «prima gli italiani» – trovano punti di contatto e indifferenza con le tesi di partiti ed esponenti politici che sono al governo. Se nel passato, partiti conservatori e di destra facevano proprie le posizioni della destra radicale, confezionandole in maniera presentabile, ora sembra che le posizioni di esponenti politici che siedono in parlamento siano fatte proprie dai gruppi neofascisti che le danno una veste militante. Non accorgersi o ridimensionare questo elemento sarebbe il più grande regalo che si possa fare ai camerati di CasaPound. E ai salotti buoni del sistema politico che strizzano l’occhio alle loro azioni.

Per affrontare questo macigno non si può certo considerare il Salone come un eden. Quella al Lingotto di Torino è la più importante iniziativa dell’editoria italiana; case editrici e autori ci vanno per presentare il meglio di quanto prodotto e il loro ultimo libro. L’esistenza di spazi dove le case editrici possono raggiungere un pubblico più vasto di quello che frequenta abitualmente le librerie è cosa buona. In anni di emorragia di lettori, di concentrazione della produzione culturale e della distribuzione e vendita, il Salone del libro di Torino è uno spazio aperto dove tutti possono dare visibilità al loro lavoro culturale. Questo non significa che sia un luogo neutro. È pur sempre una fiera non una agorà dove i contemporanei Platone e Aristotele dibattono su qualche cosa fondamentale dell’etica.

Il filosofo Henri Lefebvre ha scritto che la produzione dello spazio allude sempre alle divisioni sociali, di classe, di potere nella società. Anche al Salone l’organizzazione degli spazi riflette il potere delle case editrici nel mercato. Le grandi al centro e il resto sono satelliti più o meno vicini al centro del Lingotto. Capita così che gli indipendenti, le piccole case editrici, cioè coloro che spesso sperimentano, cercano autori nuovi di qualità siano quasi sempre ai margini. Affittare uno stand continua infatti a costare molto. Inutile dire che nel corso degli anni è stato oscurato il fatto che l’editoria italiana è fondata sul lavoro precario e sulla sua svalorizzazione. Ma di questo si tornerà a parlare se non si vuole legittimare la tendenza in atto di riduzione della bibliodiversità. Cioè a quel fenomeno che non dispiace alla destra radicale in doppiopetto o a quella braccia tese contro i migranti.