Se penso all’amicizia, quella profonda, che riempie il cuore, quella che illumina la strada, penso a due persone, per me fondamentali, due fari nell’oscurità. Una era Elettra Deiana, che poco più di un anno fa ha lasciato questa terra, (“la siembra” la semina, la chiamano qua in America Latina la dipartita), l’altra è Pietro Gigli.

Fotografo, viaggiatore, uomo del mondo. Pietro ha fatto la sua semina poche ore fa. Se ne è andato discretamente, in silenzio come del resto appariva quando meno te lo aspettavi. La sua incredibile chioma bianca come la neve, uno zainetto consunto dove si portava appresso la vita. La risata fragorosa. Le pacche sulle spalle. L’odore di legna che spaccava a mano. Il viso splendido da vero montanaro. Lo incontrai 30 anni fa, in fila per il visto per la Papua Nuova Guinea. Alla Fondazione Basso gli avevano detto che ero stato da poco in Papua e potevo dargli qualche dritta per dei reportage. Il caso volle che ripercorresse i miei stessi passi, al punto da diventare fratelli di sangue attraverso lo stesso maledetto ceppo di malaria che ci prese alla sprovvista. Da allora Pietro è entrato nella mia vita, ed in quella di Rosa mia compagna, quando appariva quasi senza preavviso per fermarsi a dormire prima di prendere l’ennesimo aereo. Poi ho scoperto che non eravamo i soli a cui capitava: per una strana qualità telepatica appariva a pochi giorni dal momento nel quale ti chiedevi che ne fosse di lui.

Senza telefono, senza tv, senza computer eppure sapeva tutto del mondo. Il manifesto , in particolare la sezione esteri, era una delle sue tappe obbligate. «Chissà che penserà Tommaso» era il refrain delle nostre conversazioni. Ed i ricordi di un altro grande compagno del manifesto, Aldo Garzia, con cui collaborò all’unico suo libro su Cuba. Afghanistan, Iraq, Centramerica, Sudan, e prima Mekong, Nicaragua, India. Le avventure con Tiziano Terzani , le telefonate da un bunker a Baghdad sotto le bombe, il lavoro negli ospedali di Emergency e poi con Terres des Hommes. I viaggi in Sahara con Stefano Liberti. Viaggiatore diventato, senza pensarci su, fotografo.

Spinto dalla sua fame di conoscere il mondo, di svelarne le ingiustizie e le contraddizioni e la grande umanità, che fosse delle donne Maya del Guatemala con i loro bimbi, o di giovani guerriglieri sandinisti alle prime armi. Con la sua mini-analogica, con obiettivo fisso 50mm che con le persone che vuoi fotografare ci devi dialogare, non rubarne le immagini. Una volta invece gli rubarono, credo in Algeria, il minizainetto con il quale viaggiava, con la macchina dentro, e ricordo che al manifesto fecero una colletta per ricomprargli quel suo prezioso strumento. Da qualche tempo era malato, si era ritratto con discrezione nella casa in campagna assieme a Sonia, sua compagna di vita. Abbiamo avuto il tempo di convincerlo a costituire un fondo per conservare l’immenso patrimonio fotografico della sua vita. Lui che non era mai sceso a compromessi con il mercato, né era interessato a esporre pubblicamente le sue opere in mostre o gallerie. Così grazie alla generosità della Fondazione Basso ora esiste il Fondo Pietro Gigli, patrimonio di interesse culturale nazionale. Come si dice in pidgin di Papua, “lukim iu bigpela”. Arrivederci grande uomo.