Scrivo con dolore. È morto ieri a Roma all’età di 64 anni Marco Calabria, compagno, poeta e giornalista, per decenni attivo nel quotidiano il manifesto e prima ancora leader studentesco e poi militante del gruppo del Manifesto. Era l’eterno “giovane” della nostra organizzazione. Colpiva di lui una caratteristica vitale che avrebbe conservato nella sua scrittura: la pacatezza e tenerezza all’ombra di folti capelli ribelli, che traduceva in una voce profonda, alta e affidabile. Disponibile, come se l’atto di volontà per gli altri fosse dolce, unilaterale senza aspettare lo scambio. Non l’ho mai visto arrabbiato. Da questo punto di vista i suoi interventi, in assemblee fumose quanto furiose, erano memorabili.

Marco scrisse per il giornale di umili e migranti ma poi subito, di fronte alle difficoltà interne, si “faceva carico”, e si mise a disposizione della raccolta di pubblicità con Valentino Parlato e la “Poster” di Maurizio Ferrini. Era però, era anche un appassionato poeta. Che partecipava a Roma della nuova scrittura di poesia degli anni Settanta e Ottanta, nelle riviste di Valore d’Uso e Oceano Atlantico non solo con i suoi testi ma con una iniziativa frenetica di organizzazione intorno alla comunicazione del testo poetico – con mille ambiguità, l’evento culturale di un’epoca con i reading di Castel Porziano, Piazza di Siena e poi all’Università di Roma.

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Per il manifesto si impegnò, soprattutto negli anni Novanta a scrivere reportage e articoli sui nuovi centri sociali, sui migranti, contro il razzismo, sulla guerra di Bosnia e sulla pace anche allora impossibile, sul cosiddetto terzo settore e sulla musica – sono centinaia e centinaia i pezzi che la nostra responsabile dell’archivio Bruna Di Pietrantonio, sua amica , ha trovato. Poi aveva fondato con Pierluigi Sullo e Anna Pizzo, anche loro del manifesto, l’esperienza della rivista Carta.

Ma la poesia restava il lavoro a cui attendere senza tregua. Nei suoi versi, oltre a testimoniare il rigore e la volontà umile di approfondire: «No, non mi accontento mai/ per principio./ proprio come quel cigno bianco/ che piange la sua voce sgraziata», scriveva già nel 1977, c’è spesso una umana intenzione profetica su di sé, sovraccaricato di pesi che sopportava con il sorriso amaro, come n questi versi, «Guardando guadagno dei guai/, i più vecchi, m’han detto/ in parecchi. / Il guado, lo passerò più in là/ ora ho comprato un oblò».

La sua era allora una piacevole fatica a tessere i non facili rapporti tra i poeti, tra le generazioni, ad interrogarsi sul nodo dell’ascolto nuovo della poesia, in genere negato a chi prende la parola in versi. Fu così fondamentale la sua ricerca, poi diventata un quaderno-documento ormai introvabile – che conservo preziosamente – “Non ci sono sedie per tutti” che curò tra gli altri con Rocco Carbone ed Emanuele Trevi nel 1983. Insieme ad essere quasi una risposta «studentesca» indiretta al “Pubblico della poesia” di Cordelli e Berardinelli, era un’inchiesta sul campo dell’Università di Roma, sulla fruizione e lettura della poesia, nella quale fu capace di coinvolgere, con interviste – rimaste sconosciute – colloqui, relazioni centinaia di studenti e importanti voci poetiche come, tra gli altri, Roberto Roversi, Edoardo Sanguineti, Elio Pagliarani, Antonio Porta, Biancamaria Frabotta, Carlo Bordini – del quale era grande amico – e Attilio Lolini.

Molto importante fu per lui il rapporto con Roberto Riversi e Maurizio Maldini che a Bologna aveano attivato il foglio gratuito della “La tartana degli influssi” – del quale Marco diventò assiduo diffusore, come aveva fatto per i volantini nelle scuole e per il manifesto quotidiano comunista; sempre per la “Tartana” curammo insieme una sintesi della “Finestra sul reale”, l’edizione de il manifesto delle poesie che venivano dal Laboratorio di scrittura del Santa Maria della Pietà ex manicomio di Roma.

Ciao Marco, mi piace pensare che un verso e un’eufonia fino all’ultimo ti siano stati vicini e leggeri nella mente.
Il saluto collettivo a Marco è oggi, sabato 10 febbraio alle 15, a Roma, al Casale Podere Rosa (in via Diego Fabbri), luogo di relazioni sociali a cui è sempre stato legato.