Uno scambio di dichiarazioni al calor bianco tra Usa e Cina fanno alzare l’asticella di un allarme già diffuso da settimane nel quadrante del Pacifico che corrisponde al Mar cinese meridionale. Mare affollato da portaerei, fregate d’appoggio e caccia dei due colossi.

Comincia il Dipartimento di Stato lunedì con una dura presa di posizione di Mike Pompeo: «Gli Usa sostengono una regione indo-pacifica libera e aperta e stiamo rafforzando la politica degli Usa in una parte vitale e controversa di quella regione: il Mar cinese meridionale». Dopo la premessa l’affondo: «Lo diciamo chiaramente: le pretese di Pechino sulle risorse offshore in gran parte del Mar cinese meridionale sono completamente illegali, così come la sua campagna di intimidazione per controllarle».

Quel «lo diciamo chiaramente» fa la differenza su un contenzioso antico in quelle acque, dove già si scontrano le diplomazia di Pechino e quelle delle sue non sempre stabili ma importanti alleanze nel Sudest asiatico, per non parlare di Taiwan e dei nervi sempre tesi di Giappone e Corea, apertamente schierate con Washington.

Pechino reagisce: risponde l’ambasciata cinese a Washington che bolla l’uscita di Pompeo come una «sfida agli sforzi della Cina e dei Paesi dell’Asean per la salvaguardia, la stabilità e la pace nel Mar cinese meridionale, distorcendo incautamente fatti oggettivi rilevanti e leggi come la Convenzione Onu sul diritto del mare». Pechino in realtà naviga su acque agitate perché tra provocazioni marittime e contenziosi legali, il dossier Mar cinese è un grattacapo da anni.

Ma per Pechino il Mar cinese meridionale non si chiama così per caso e un editoriale del China Daily accusa gli Usa di voler mettere zizzania tra la Rpc e i suoi partner mentre Washington dovrebbe pensare ad altro, ad esempio alla gestione in casa del Covid 19.

Gli americani sanno però che colpiscono un tasto delicato. «Il mondo non consentirà a Pechino – dice ancora Pompeo – di trattare il Mar cinese meridionale come il suo impero marittimo».

E l’America si erge a paladina degli «alleati e partner del Sudest asiatico» per «proteggere i loro diritti sovrani sulle risorse offshore». Washington respinge dunque tutte le rivendicazioni cinesi oltre l’area territoriale di 12 miglia nautiche intorno alle Isole Spratly e ancora quelle sulle acque circostanti la Vanguard Bank al largo del Vietnam, Luconia Shoals di fronte alla Malaysia, l’area all’interno della Zona economica esclusiva del Brunei e Natuna Besar al largo dell’Indonesia cui vanno aggiunte le isole Paracels.

Una dichiarazione di guerra nemmeno tanto mascherata e che fa leva sui dissidi con Hanoi, Manila, Giacarta, Kuala Lumpur. Che sono però anche Paesi che con la Cina hanno rapporti stabili e frequenti e che una guerra nei loro mari certo non la vogliono. Una tensione alimentata, dicono gli osservatori, dal bisogno di Trump di mostrare i muscoli in un momento delicato, con un consenso eroso dal virus e dai movimenti sociali. E in cui è accusato di essere troppo fiacco con Pechino.
Vicini allo scontro sulle decine di isole, atolli, banchi coralliferi?

In ballo oltre alla libertà di transito delle merci ci sono anche i diritti di pesca, grandi risorse energetiche e il desiderio di dimostrare chi tiene il manico del coltello. Una guerra forse no ma il rischio resta elevato in un mare solcato da due portaerei Usa a propulsione nucleare che possono schierare quasi 200 tra caccia ed elicotteri di fronte a una potenza marittima cresciuta a dismisura negli ultimi anni: secondo il Sipri di Stoccolma, la Rpc ha aumentato le spese per la difesa da 143 miliardi di dollari nel 2010 a 261 nel 2019.