«Stavo girando il documentario su Patti Smith che, insieme al Soundwalk Collective, canta versi di Artaud, Daumal e Rimbaud. Ad un certo punto ho sentito di dover andare in Ucraina, dovevo essere lì in quanto filmmaker. I due lavori quindi sono iniziati in maniera diversa ma hanno iniziato a parlarsi, non so dire esattamente perché, ho seguito il mio istinto». Così Abel Ferrara racconta al pubblico del Kino International la genesi di Turn In The Wound, il suo nuovo documentario dedicato, appunto, alla guerra in Ucraina.

Nonostante sia recalcitrante, il grande regista newyorkese è spinto a dare spiegazioni a una platea che a più riprese chiede: cosa voleva che pensassimo di fronte a questo film? «Non c’è una risposta, si tratta di fare un’esperienza, di credere nel processo. Per parte mia, vivo in Europa, mia moglie è moldava, sento che tutto questo mi riguarda».

L’IMPRESSIONE di fronte a Turn In The Wound è che il film rimanga sospeso tra la ricerca di una visione poetica, veicolata dalla presenza di Patti Smith, e la volontà di documentare gli effetti atroci della guerra sul campo. Senz’altro Ferrara si è messo in gioco, recandosi sul posto e tra la gente – per una settimana nell’estate del 2022, racconta – girando il film con una troupe ucraina, così da poter interagire in maniera più diretta con le persone che raccontano le loro esperienze: i bombardamenti, la prigionia, le ferite. Realtà terribili ma di cui purtroppo siamo testimoni ogni giorno aprendo un giornale o accendendo la tv. Quando poi appare Zelensky, è certo un capo di Stato diverso da quello semi-divino dipinto da Sean Penn in Superpower sempre qui alla Berlinale un anno fa: stavolta cerca con cura le parole, il suo inglese è incerto, i discorsi suonano meno retorici. Ma anche in questo caso, non possiamo dire di avere davanti un’immagine che ci interroga in maniera nuova.

I versi di Artaud, Daumal e Rimbaud si intrecciano alle testimonianze sul campo

Turn In The Wound – il titolo fa riferimento, spiega il regista controvoglia, al sangue e quindi all’elemento cristologico e sacrificale – si inserisce nel filone dei documentari di Ferrara che consistono in un flusso e in una riflessione sul loro stesso farsi. Ma per affrontare un tema così profondo, difficile e misterioso come quello di esseri umani che uccidono altri esseri umani senza un perché – «è troppo folle per me», dice Ferrara, che dedica il film al suo collaboratore di lunga data Ken Kelsch, morto di recente e ferito gravemente durante la guerra in Vietnam – insieme all’energia della vita che scorre servirebbe forse un raccoglimento che le incursioni di Patti Smith non riescono a soddisfare.