«Il carovita spaventa più della portaerei statunitense», osserva Asia, professoressa di italiano alla scuola Pietro della Valle a Farmanieh, un quartiere nella Teheran nord. «La guerra ci sarà, ma solo quando sarà finito il Ramadan», ipotizza Taher da Tajrish, un altro quartiere nella Teheran alta, illudendosi che gli americani abbiano un qualche rispetto per i precetti religiosi musulmani e quindi per il mese del digiuno appena cominciato.

«Dell’arrivo della portaerei americana nel Golfo persico non sanno tutti, chi ne parla lo ha saputo da emittenti straniere come Manoto e BBC Persian service. Ma non tutti gli iraniani hanno accesso alle informazioni internazionali», commenta Taher.

Che non tutti siano consapevoli della presenza della portaerei americana nel Golfo lo conferma Asia che aggiunge: «La gente è talmente impegnata a sbarcare il lunario che alla guerra proprio non pensa».

Quanto costa la vita a Teheran? «Un chilo di pollo costa 20mila toman, nove uova 7mila tuman, un litro di latte 4-5mila toman, cifre basse per voi italiani, ma bisogna tenere conto che la svalutazione della moneta è tale che oggi uno stipendio medio è di due-tre milioni di tuman (120-180 euro), se cambiate mille euro vi danno 17 milioni di toman», commenta Ali Reza che di professione fa il grafico, abita nei sobborghi della capitale e, come tanti altri dei ceti popolari, ha un passato nei pasdaran.

Nella Repubblica islamica i venti di guerra si fanno comunque sentire da parecchio tempo. Sui media locali ci sarà anche la solita propaganda, ma il leader supremo Ali Khamenei non perde occasione per mettere in guardia la nazione e i funzionari dello Stato: «In caso di aggressione tutti devono essere pronti, prendersi le proprie responsabilità e andare sul campo di battaglia».

Di fronte alla fine delle esenzioni agli otto paesi che ancora potevano acquistare petrolio dall’Iran e al disastro causato dalle alluvioni di marzo, un conflitto potrebbe essere – paradossalmente – la soluzione per deviare l’attenzione. Biasimando cause esterne.

Un po’ come la guerra imposta (jang-e tahmili, così la chiamano gli iraniani) scatenata nel settembre 1980 da Saddam Hussein: l’invasione da parte delle truppe irachene aveva permesso all’Ayatollah Khomeini di compattare l’opinione pubblica iraniana all’indomani della rivoluzione del 1979. E durante quel conflitto, durato ben otto anni, la magistratura aveva mandato al patibolo gli oppositori politici.

Ora, non è scontato che i falchi di Washington abbiano effettivamente intenzione di attaccare. Rispetto agli americani, l’Iran ha armi obsolete e un numero inferiore di soldati: gli Stati uniti vantano una forza attiva di 1,3 milioni di unità, riserve comprese, contro i 500mila della Repubblica islamica. Militarmente inferiore, l’Iran ha però una superficie equivalente a cinque volte e mezza l’Italia, su tre lati ci sono le montagne e a sud il Golfo persico. Sarebbe ipotizzabile un attacco aereo, ma gli americani non sarebbero in grado di distruggere tutte le infrastrutture militari e le rappresaglie non si farebbero attendere.

Via terra, attaccare l’Iran dalla Turchia, se mai Ankara lo permettesse, vorrebbe dire affrontare i monti Zagros; dall’Afghanistan si dovrebbero attraversare le regioni desertiche, ovvero una sorta di sabbie mobili con fango denso coperto da uno strato di sale; dall’Iraq ci avevano già provato le truppe irachene che ebbero a che fare con le paludi del fiume Shatt al-Arab; infine, il fronte sud, lambito dalle acque del Golfo persico, è il confine più presidiato dai pasdaran, addestrati a tattiche asimmetriche a sciame con piccole e veloci imbarcazioni, e dalla marina militare.

Se gli americani dovessero riuscire a entrare in Iran dal mare, sarebbe complicato avanzare fino a Teheran. Detto questo, a pensare male ci si azzecca: sommando le risorse di petrolio e di gas l’Iran è al primo posto per riserve di energia.