Un popolo è scomparso. Non un popolo astratto, bensì persone reali, vive e impegnate. Tutti quegli individui che – per discutere del futuro della «loro» costituzione – sono uscite dal torpore casalingo, dall’isolamento televisivo o da quello virtuale dei social.

Cittadini della Repubblica che hanno riempito le sale, intervenendo in discussioni pubbliche, con la voglia di comprendere e, infine, si sono schierate. Non più indifferenti, non solo rabbiosi, ma partecipi di una impresa collettiva.

Contro le tendenze di estraneazione in atto da tempo, un popolo è sceso in campo, si è riconosciuto ed ha assunto coscienza di sé. L’esito del referendum ha, da ultimo, dimostrato la forza della partecipazione attiva: per i cittadini è ancora possibile concorrere a determinare la politica nazionale, magari contro la volontà dei partiti maggioritari, in nome del popolo sovrano, nelle forme e nei limiti della costituzione.

È stata un’esperienza straordinaria, che è riuscita a dare nuova vita ai luoghi smorti della politica tradizionale, riempendo le sedi di partito e dei circoli associativi, affollando come mai prima le assemblee nei posti di lavoro e nelle università, gremendo teatri e occupando spazi aperti. Lunghi e appassionati confronti ove – spenti i cellulari e abbandonati i twits – si sono potute formare opinioni consapevoli, scuotere coscienze, ribaltare preconcetti e luoghi comuni.

Se ora si torna sui propri passi, in quei stessi luoghi si ha l’impressione di una festa finita: qualche manifesto invecchiato gettato per terra e pochi ostinati militanti che si attardano a discutere non si sa più bene di che.

Credo che ci si debba interrogare sulle ragioni della scomparsa dalla scena di queste persone reali. I giovani curiosi sono tornati su facebook, gli altri insofferenti dinanzi alle televisioni. Tutti a casa, dove basta un click per scaricare la propria tensione individuale, ma senza più una passione comune.

È trascorso solo un anno e il giorno delle elezioni le forze organizzate della sinistra sono state sconfitte. Hanno perduto elettori, ma soprattutto se stesse, perché non sono riuscite a proseguire il dialogo con un popolo che pure era venuto a cercarle. Una vasta comunità di donne e uomini concreti ha chiesto, ma non le è stato risposto; ha interrogato una cultura di sinistra (radicale o moderata che fosse) che era troppo impegnata a litigare, dividersi, accusarsi o riciclarsi.

A sinistra s’è perso l’attimo, non poteva che finire così. In questo modo si spiega anche perché a capitalizzare la nostra battaglia di ragione e di progresso siano stati altri: quelle forze che hanno combattuto la riforma costituzionale sul fronte dell’illusione populista. Ora si dovrà comunque ripartire. Più affaticati, ma indomiti, non fosse altro perché – come ci ricorda Walter Benjamin – le macerie del presente non possono arrestare il vento del progresso.

Marciare ancora, ma per andare dove? Con quali obiettivi? Se vogliamo imparare dalla piccola storia che è alle nostre spalle, la risposta ad entrambe le domande viene da sé. Andare in quelle case che si sono da poco richiuse per provare a riprendere il dialogo interrotto sulla «nostra» costituzione e sulla sua capacità di rappresentare un obiettivo comune per il quale vale la pena lottare. Cercare di nuovo quelle persone vive e impegnate con cui ci siamo incontrati e con cui, assieme, abbiamo sentito il dovere (forse anche il piacere) di uscire per strada nel momento in cui abbiamo avvertito come una minaccia la manomissione che si voleva compiere ai danni della costituzione democratica e pluralista.

La sfida è quella di tornare alla costituzione per provare a cambiare la vita delle persone, per discutere del bene comune, dei diritti concreti e dei poteri reali, non più esclusivamente dei propri affari privati, non più solo di persone, partiti o fazioni, non più solo di sé, bensì anche degli altri. Immaginare un futuro diverso nel nome della costituzione è possibile. Le idee non mancano, semmai il problema siamo noi. Le nostre deboli forze, i nostri smacchi, la nostra paura di metterci in gioco. Il timore di uscire allo scoperto, per cercare ancora.