Quei due mesi di emergenza visti da sotto. Visti dalla “Roma di sotto”. E’ un angolo di visuale che ti porta lontanissimo dalla diatriba fra ottimisti e pessimisti sulla ripresa autunnale della pandemia.

“A parte che non è finito un bel nulla, neanche qui a Roma, sarebbe davvero criminale se non avessimo imparato nulla e ci facessimo trovare di nuovo impreparati”. A parlare così è Antonella Torchiaro, una giovane medico che fa parte del team mobile di InterSos, l’organizzazione umanitaria che – quasi da sola – si è occupata durante il lockdown dei dimenticati, degli ultimi. Degli invisibili. Appunto: della Roma di sotto.

Ogni giorno, in quei mesi nei quali tutta la città era chiusa, due pulmini dell’associazione, andavano ovunque erano – e sono – i senza diritti, i senza protezione.

Due mesi di lavoro, supplendo – quasi completamente – alle carenze delle amministrazioni, delle istituzioni.

Due mesi di lavoro davanti alla stazione Tiburtina, lì dove continuano a vivere e dormire i migranti. anche dopo che è stato smobilitato l’insediamento del Baobab, che pure garantiva loro un minimo di assistenza.

Due mesi di lavoro, 965 visite negli edifici occupati o per le strade attorno a Termini. Che hanno permesso di rintracciare una trentina di persone con i sintoni del virus.

Due mesi di lavoro, corsi di educazione sanitarie per più di mille persone, sintetizzati in un dossier, un report che raccoglie dati, interventi.

 

Colosseo deserto durante la quarantena, foto Ap

 

Ma anche storie. Storie di persone. Come quella di Asha, una ragazza ventitreenne che viene dal Bangladesh e che in piena pandemia ha dato alla luce il suo terzo bambino. E che ogni giorno, in ospedale, riceveva la visita del marito e degli altri due suoi figli. Che però vivevano in strada, perché l’uomo quasi all’inizio dell’allarme virus, aveva perso il lavoro e non aveva più potuto pagare l’affitto.

Per un periodo sono stati ospiti della moschea ma lì potevano solo dormire la notte. Di giorno, il padre e i due bambini erano costretti a vagare per Roma. Emergenza della quale si sarebbe dovuto attivare il servizio di accoglienza capitolino. Ma nei giorni del lockdown il servizio era stato sospeso.

E ancora, il dossier racconta anche la storia di Gianni. Un sessantaduenne romano, con alle spalle una vita segnata dall’eroina. Una storia che l’ha portato a vivere per strada. Con conseguenze facilmente immaginabili sulle sue condizioni. Eppure, nonostante questo, e nonostante l’ennesimo ricovero per l’acutizzarsi dell’epatite, dimesso in piena pandemia.

Ributtato in strada. Fino a che, proprio l’equipe di InterSos non l’ha incontrato, visitato. Riscontrandogli esattamente i sintomi del Covid: febbre, tosse, saturazione sotto la norma.

Una delle tante persone che avrebbe avuto bisogno immediato di un tampone, sicuramente prima degli altri. Ma non si è potuto fare subito, perché Gianni non aveva un luogo dove stare in attesa dell’esito. Alla fine, dopo l’ennesimo ricovero ed una lunga battaglia burocratica, il tampone gli è stato fatto. Ed è risultato positivo.

Di storie così se ne potrebbero raccontare centinaia, basterebbe leggersi il dossier.

Storie che però non sono piaciute molto all’amministrazione capitolina che quasi in risposta alla pubblicazione del report ha spiegato che il Comune “si è attivato in tempo”, ampliando le disponibilità nei centri di accoglienza.

Si parla di qualche decina di posti letto in più, costati ore e ore di incontri. Di sollecitazioni, di pressioni. Qualche decina di posti letto davanti ad un esercito di invisibili: l’organizzazione umanitaria calcola che nella capitale ottomila persone vivano in strada, undicimila negli stabili occupati. E soprattutto si calcola in sessantamila i migranti che da un giorno all’altro si sono trovati “irregolari”. “Vittime – continua la dottoressa – del decreto Salvini”. Quello ancora in vigore.

 

Sanificazione di un hotel della Capitale, foto Ap

 

Cosa hanno insegnato questi mesi? Cosa insegna ancora la pratica quotidiana di InterSos, visto che si raggiunge Antonella Torchiaro mentre sta andando a fare le visite di controllo in uno dei palazzi occupati da più tempo. Dove vivono quasi 500 persone ma dove in cento non hanno nulla: né un medico di base, né una tessera sanitaria. Nulla.

“Cosa ci ha insegnato? Che dobbiamo cambiare radicalmente approccio. Non sto qui ad indicare colpe e responsabilità. Nel nostro lavoro abbiamo incontrato una straordinaria disponibilità negli operatori dei servizi ma la totale mancanza di coordinamento fra le istituzioni. Asl, Regione, Comune, quel poco, pochissimo che hanno messo in campo, l’hanno fatto ciascuno per conto proprio”.

Chi si occupa degli ultimi chiede coordinamento, insomma, chiede “percorsi sicuri” quando e se riesploderà la pandemia. Chiede una “cabina di regia”, una governance autorevole. Chiede alloggi – anche da requisire – per garantire la possibilità di distanziamento. Chiede che non siano sospesi i servizi di assistenza alle prime difficoltà. Come invece è accaduto. Chiede che siano predisposti piani regionali, comunali. Chiede che le organizzazioni umanitarie non siano lasciate sole.

Neanche adesso. “Anche noi stiamo provando a ritornare alla normalità, se così si può chiamare. E quasi subito abbiamo riaperto il nostro centro a Torre Spaccata, quello che abbiamo allestito anni fa, in una scuola abbandonata. Lì, l’ambulatorio ha ripreso a funzionare quotidianamente. Al servizio di chiunque abbia bisogno. E ci siamo accorti che sui più deboli questo tempo sospeso ha creato un ulteriore disagio”.

Difficile definirlo in poche parole.

La dottoressa solidale usa questi termini: “Vediamo crescere il bisogno di assistenza psicologica. Perché cresce quella che chiamerei un’equiparazione frustrante. I migranti, i senza diritti hanno vissuto col sogno di poter diventare cittadini. Romani come gli altri. Ora però si accorgono che anche tante altre persone, quelle che invidiavano, sono state costrette ai margini dalla pandemia. Tante altre persone conoscono adesso la povertà, l’esclusione, quella che loro hanno vissuto fino ad ora. Ed in qualche modo questo distrugge il loro sogno. Non so se riesco a spiegarmi: ma questo per molti di loro è frustrante. Come se dovessero rinunciare anche a sognare, oltre che a tutto il resto. E ciò genera rabbia, frustrazione. Disagio”.

Servirebbe occuparsene. Ma fra i mille decreti varati, in emergenza e nella fasi successive, non c’è nulla che riguardi il sostegno agli invisibili. Niente. “No – aggiunge la dottoressa – non è un buon segnale”.

Così tutti temono che se tornerà, il Covid19 troverà la stessa situazione di marzo, di aprile. La stessa drammatica situazione.

Da allora, comunque, qualcosa è già cambiato. Per l’equipe di InterSos, ad esempio. A cominciare dalla percezione che gli operatori umanitari hanno del proprio ruolo: “Mi sono, meglio: ci siamo resi conto che la solidarietà non può limitarsi alla filantropia. La solidarietà attiva oggi è soprattutto rivendicazione di diritti. Diritti universali. Diritti umani per tutti. Tutti. La carità da sola non basta più”.