«Ma come fai a tenere i tuoi figli tranquilli dentro casa?» chiedo a Mikhailo, mentre fumiamo una sigaretta durante la sua pausa dal lavoro. «Da oggi hanno ricominciato a seguire le lezioni scolastiche, per fortuna». «Ma come, con la guerra?» chiedo. «E cosa devono fare? La vita deve pur continuare, no? Dopo tutto io sto lavorando, la madre non si ferma un attimo al centro per i volontari e loro restavano in casa tutto il giorno senza far niente. Usano… come si chiama… Zoom, lo conosci?». Mikhailo ha due figlie, una di tredici anni e una di nove, entrambe hanno ricominciato a seguire le lezioni da remoto e i genitori ne sono molto contenti. Non solo per la normale apprensione che hanno la maggior parte delle famiglie rispetto all’educazione dei figli, ma per la serenità psicologica di questi ragazzi e bambini. «Li vedevo che stavano tutto il giorno al cellulare e anche se parlavano con gli amici lo so che gli arrivavano in continuazione notizie della guerra, i video sono la cosa che mi preoccupa di più, non vorrei che trovassero qualcosa che li traumatizza». E siccome fino alle tre del pomeriggio Mikhailo lavora in uno dei due soli ristoranti rimasti aperti in queste settimane, la consapevolezza che tornino i professori lo consola.

D’altronde, l’inizio della didattica on-line è uno dei segni più evidenti di una tendenza che si evidenzia già da una settimana in Ucraina, ovvero, per quanto paradossale possa sembrare, il ritorno a un certo tipo di normalità. Ovviamente, da questo discorso vanno escluse tutte le città dell’est e in particolare Mariupol, Kharkiv e Sumy. Ma nel resto del Paese, persino a Kiev, i civili sono talmente esasperati dalle chiusure, dal coprifuoco, dall’attesa che inizia a prevalere la voglia di tornare nelle strade, anche se per poco. La proverbiale “boccata d’aria fresca” che a volte vuol dire semplicemente fare una passeggiata verso un alimentari o spingersi fino a un parco. In molti dichiarano di non poterne più di stare chiusi in casa, la maggior parte usa il verbo «impazzire», coniugato in ogni forma possibile, per descrivere una situazione diventata insostenibile.
Si pensi a Kiev e Odessa, le due città simbolo dell’Ucraina, indicate dall’inizio della guerra come obiettivi primari dell’avanzata russa e oggetto per settimane di uno stillicidio mediatico e psicologico. Nella capitale tutto era iniziato con la “famosa” colonna di 64 km di uomini e mezzi corazzati che avrebbe dovuto cingerla in una morsa letale per sferrare un attacco massiccio. A Odessa si attendeva l’arrivo degli incursori dalle navi ancorate a poche miglia dal porto e si leggevano con apprensione le notizie degli attacchi russi a Mykolayiv, preludio a un’eventuale avanzata via terra. Nessuno dei due scenari ha cessato di preoccupare gli ucraini ma, a 33 giorni dall’inizio della guerra, inizia a delinearsi quell’attaccamento alla vita di cui avevamo parlato nei rifugi di Kiev qualche giorno dopo l’invasione.

L’ha detto anche il presidente Zelensky, «chiunque non è impegnato nella difesa armata dell’Ucraina deve pensare a mandare avanti l’economia», in altri termini a lavorare, a produrre, a spendere. E le amministrazioni locali si stanno organizzando di conseguenza cercando di trovare un sistema per coniugare i controlli, il reclutamento e la produttività.
Ad Odessa, per esempio, ogni giorno si vede più gente in strada e dallo scorso fine settimana hanno riaperto una porzione del centro storico spostando i dissuasori e i cavalli di frisia. Chi non vuole imbracciare le armi chiede di poter ricominciare a lavorare ma neanche questo durante una guerra è scontato.