Per gli abitanti della grande baraccopoli di Kibera a Nairobi si torna a parlare di sfratto. L’avviso è stato affisso mercoledì e dà ai residenti 12 giorni di tempo per liberare lo spazio per la costruzione della Kibera-Kungu-Lang’ata, una strada che dovrebbe alleggerire il traffico sull’affollatissima Ngong Road.

Secondo il responsabile del settore infrastrutture Nyakongora, «sono presenti strutture illegali che devono essere rimosse. Pertanto abbiamo dato il preavviso dopodiché procederemo con la rimozione coatta».

Già all’inizio di giugno centinaia di famiglie sempre di Kibera sono rimaste senza casa per la costruzione della ferrovia. Può sembrare una questione semplice e lineare: c’è da costruire un’infrastruttura utile una strada o una ferrovia, un bene pubblico, che deve avere la priorità su interessi «privati», quindi deve avere spazio; inoltre in tale spazio c’è chi ha edificato abusivamente quindi non può avere nulla da eccepire. Ma non è così semplice.

In primis si tratta di abitazioni, ma dove non c’è una divisione tra spazio domestico e luogo di lavoro, nelle case si cuce, si produce, si cucina, lo spazio adiacente è il luogo di vendita: con la demolizione non si priva solo la gente della casa, ma anche del lavoro.

Secondo, non è l’abusivismo «italiano»: qui le persone sono arrivate prima delle infrastrutture. Kibera deriva da kibra che in arabo significa foresta: il terreno su cui sorge venne consegnato dall’esercito inglese ai Nuba che avevano servito la corona britannica.

Gli African King’s Rifles ricevettero agli inizi del secolo scorso i 250 ettari di terra dove vivono oggi i circa 800mila abitanti di Kibera, ma tuttora i certificati di proprietà sono incerti: nell’Africa orientale e in generale in tutta l’Africa subsahariana, nonostante le rilevanti differenze esistenti tra le popolazioni, la proprietà della terra si basava sul concetto di proprietà comune. Inoltre, nel periodo coloniale non era permesso agli africani di essere proprietari di terreni né di costruire case.

Nelle città gli africani non potevano essere proprietari dell’abitazione così che una volta terminato il periodo di lavoro si fosse sicuri che sarebbero ritornati al villaggio. I residenti in città potevano possedere un permesso di occupazione del suolo per un tempo definito, un permesso di abitazione revocabile in ogni momento non trasferibile o ereditabile con cui era possibile costruire con materiale non permanente.

Nacquero così gli speciali «insediamenti indigeni», diventati oggi gli slums. Con la fine dell’epoca coloniale c’è stata una fortissima pressione migratoria verso le città perché lì tutti gli investimenti pubblici si sono concentrati puntando sulla presunta vocazione industriale dell’Africa

Sono arrivate migliaia di persone, senza un posto di lavoro ad attenderle; sono nate città che nel loro perimetro hanno case di fango e grattacieli, campi da golf e interi quartieri senza una pianta, buchi per le strade, nei bilanci, nei canali fognari e negli acquedotti, nelle mani dei donatori internazionali e nelle vene dei malati di Aids così come nella cultura: incapace di creare una sintesi tra istanze differenti.

Ma il «buco» più vistoso è nella storia. Si è pensato di far crescere questa città, modificarne cultura e tradizioni come un bambino che tira una pianta per farla crescere più in fretta. La terra, la sua distribuzione, la proprietà, la città di diritto e la città di fatto sono rimaste un nodo psicologico ed economico che impedisce alla vita di scorrere.