Un anno fa Molenbeek, comune di 100 mila abitanti nel cuore della capitale europea, si scopriva la base logistica del commando di terroristi, di matrice cosiddetta islamica, che ha colpito Parigi prima e Bruxelles dopo.

Annalisa Gadaleta, nata e cresciuta in Italia, oggi assessora nella giunta del comune di Molenbeek, chiede allo Stato (belga) uno sforzo d’autocritica nell’aver sottovalutato la pericolosità dell’influenza salafita, finanziata dall’Arabia Saudita, portatrice di una visione dell’islam radicale e intransigente. Lo Stato poi «non è stato capace di sostenere la nascita e lo sviluppo di un islam diverso».

L’invito all’opinione pubblica è di non interpretare la timida reazione di denuncia della comunità musulmana come un’adesione implicita al terrorismo. 

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Un anno dopo gli attentati di Parigi. Com’è cambiato il comune di Molenbeek ?

È una domanda che ci fanno in molti. Oggi ci sono meno tabù, si è meno reticenti ad affrontare pubblicamente il tema del terrorismo. Molte iniziative portano questi temi nel dibattito pubblico. Alcune sono spontanee e partono dal basso, impensabile fino ad un anno fa. Ma non c’è stato un cambiamento radicale, un vero coinvolgimento di massa e forse era un po’ utopico aspettarselo.

Da Molenbeek sono partiti i terroristi che hanno agito a Parigi e Bruxelles. Quale immagine ne è uscita e cosa c’è di vero?

Molenbeek non ha mai avuto un’immagine positiva. C’è sempre stato un problema di criminalità. Come giunta abbiamo cercato di mettere in risalto il lato positivo del comune, cercando di cambiarne l’immagine di ghetto. Poi con i due attentati, Molenbeek è stato assimilato al terrorismo. Come già accaduto per l’omicidio del comandante afghano Massoud. Bisognerebbe però interrogarsi sul perché le persone legate al terrorismo siano passate da un percorso di criminalità comune a uno di tipo terroristico.

In che modo la comunità musulmana ha cercato di smarcarsi dall’assimilazione al terrorismo?

La comunità musulmana ha un deficit di rappresentanza, manca di un portavoce riconosciuto come tale e non ha la cultura della contestazione così come noi la conosciamo. La partecipazione al dibattito pubblico non è sentita come necessaria oppure è fatta in maniera poco visibile. C’è stata una reazione nelle moschee, con le giornate «porte aperte», di chiara condanna al terrorismo, evidentemente poco visibile. Questa mancata reazione non va però interpretata come un disinteresse o peggio ancora come implicita adesione al terrorismo.

Come spiega invece l’adesione alla retorica del terrorismo?

Molenbeek ha sicuramente un problema di povertà, non solo materiale ma anche intellettuale e culturale. C’è forse un’ignoranza anche sull’islam e la retorica salafita, di un islam chiuso e radicale, è attraente perché semplice e lineare. In Belgio la propaganda salafita è stata scientificamente finanziata come una campagna di marketing degna di una grande multinazionale. Una retorica che viene da un paese, l’Arabia Saudita, con cui continuiamo a fare affari.

Il terrorismo alimenta i movimenti politici d’estrema destra, che a loro volta alimentano la retorica terrorista. Come si esce da questo circolo vizioso?

Dobbiamo avere l’onestà intellettuale di ammettere i nostri errori. Dobbiamo avere il coraggio di accogliere chi scappa da una guerra, anche attraverso l’obbligo al percorso integrativo. Non dobbiamo avere paura di affrontare gli argomenti scomodi e di interrogarci sui valori che vengono trasmessi nelle famiglie e sul ruolo della donna. E la sinistra deve smettere di subire la retorica delle destre ed avere il coraggio di prendere posizione sui temi della sicurezza e dell’integrazione.

Siamo a sole 5 fermate di metro dalle istituzioni europee. Quanto è lontana l’Europa da Molenbeek?

L’Europa è lontana da Molenbeek come è lontana da quasi tutte le periferie europee. I valori europei di democrazia, solidarietà e difesa della libera espressione sono oggi sotto pressione, il caso dei rifugiati è emblematico. L’Europa deve dare risposte chiare, capaci di includere tutti i suoi cittadini. Anche i musulmani. Altrimenti facciamo il gioco dell’Isis.