Zalmay Khalilzad, l’inviato del presidente Trump per l’Afghanistan, è tornato ieri a Kabul per discutere con le autorità locali la ripresa formale del negoziato con i Talebani. Interrotto improvvisamente il 7 settembre scorso da Trump, proprio quando la firma del testo concordato a Doha sembrava imminente, il processo di pace è rimasto sospeso a lungo, sebbene i Talebani abbiano sempre lasciato la porta aperta a futuri incontri con la controparte statunitense. La visita di Khalilzad a Kabul arriva dopo due avvenimenti importanti: il 19 novembre lo scambio tra tre Talebani detenuti nel carcere di Bagram e due docenti occidentali sequestrati nell’agosto 2016 dalla rete Haqqani, affiliata ai Talebani. Poi, il 28 novembre, la visita non annunciata di Trump ai soldati americani nella base di Bagram, 60 chilometri a nord di Kabul. In quell’occasione il presidente Usa è tornato sui suoi passi e ha dichiarato di voler riprendere il negoziato, lasciando intendere di sostenere la richiesta del suo omologo afghano, Ashraf Ghani: il cessate il fuoco.

Si tratta di uno dei quattro punti principali del testo concordato a Doha tra Talebani e Khalilzad, ma nella formula originaria il cessate il fuoco sarebbe dovuto avvenire dopo la firma dell’accordo con gli americani, e non prima come chiede Ghani, alle prese con una seria crisi post-elettorale intorno al risultato delle presidenziali del 28 settembre. Per il dipartimento di Stato americano, dopo Kabul Khalilzad andrà a Doha, «per riprendere i colloqui con i Talebani così da discutere i passi che conducano a negoziazioni intra-afghane e a una soluzione pacifica del conflitto, in particolare la riduzione della violenza che porti al cessate il fuoco». Un endorsement alla posizione del governo di Kabul, che in passato ha lamentato l’esclusione dai colloqui, ma anche un possibile cambiamento di rotta: non più, come stabilito fin qui, prima l’accordo tra Talebani e Usa e poi il dialogo intra-afghano e la riduzione della violenza, ma l’opposto. Meno violenza, dialogo tra Talebani e Kabul, infine l’accordo con Washington. Una mossa azzardata, se confermata, perché per i Talebani nel negoziato si deve ripartire da quanto concordato a settembre. Senza cambiare le carte in tavola.

Sul punto che preoccupa di più Pentagono e Difesa, quello del legame con i jihadisti a vocazione globale, i Talebani hanno dimostrato affidabilità: ieri Khalilzad ha enfatizzato il ruolo degli studenti coranici nelle operazioni militari contro la branca locale dello Stato islamico nella provincia di Nangarhar. Non ha parlato di vera e propria collaborazione con le forze americane sul terreno, ma ci è andato vicino.

E proprio nella provincia di Nangarhar ha operato per tanti anni il dottor Tetsu Nakamura, giapponese di 73 anni ucciso ieri a Jalalabad, capoluogo provinciale. Nakamura, conosciuto dai locali come “zio Murad”, aveva cominciato a prestare soccorso ai rifugiati afghani in Pakistan negli anni Ottanta, per poi spostare le sue attività in Afghanistan, dove ha fondato cliniche e poi contribuito alla rinascita di interi villaggi, introducendo nuove tecniche di irrigazione che hanno beneficiato quasi un milione di persone, irrigando circa 24mila ettari di terreno prima arido.

L’attacco, che ha causato anche la morte di 5 suoi collaboratori, non è stato rivendicato. I Talebani si dicono estranei. E la popolazione locale piange un uomo che aveva dedicato la vita agli afghani, tanto da ricevere la cittadinanza onoraria.

 

In guerra da 40 anni

Quarant’anni di guerra, dall’invasione del 1979 da parte delle truppe sovietiche alla nuova occupazione militare guidata dagli Stati Uniti e dagli alleati della Nato, iniziata nel 2001 e non ancora conclusa. È la storia ripercorsa nei saggi raccolti ne La grande illusione. L’Afghanistan in guerra da 40 anni, il libro curato da Emanuele Giordana e pubblicato da Rosenberg&Sellier che verrà presentato oggi 5 dicembre alle 18.30 a Roma, nell’ambito di Più Libri Più Liberi. Oltre al curatore, partecipano Giuliano Battiston, la principessa Soraya Malek, nipote del re riformatore Amanullah Khan, e Gianni Rufini, direttore di Amnesty Italia, che firma la prefazione al libro. Tra i testi inclusi nel volume, quello di Antonio Giustozzi su evoluzione e strategia dei Talebani, di Elisa Giunchi sull’Islam afghano, di Francesca Recchia sul fare cultura in Afghanistan.