Nessuno avrebbe potuto immaginare che quel 18 ottobre del 2019, quando gli studenti, per protestare contro l’ennesimo aumento del costo del trasporto pubblico, avevano iniziato a scavalcare i tornelli della metro senza pagare il biglietto, avrebbe segnato l’avvio dell’evento politico più importante della storia del Cile degli ultimi decenni.
A quella rivolta fino ad allora inimmaginabile nell’oasi felice che l’inconsapevole presidente Piñera aveva evocato appena qualche giorno prima, il governo aveva reagito in modo questo sì del tutto prevedibile: riportando i carri armati per le strade come non si vedeva dalla fine del regime di Pinochet. E reprimendo, sparando, uccidendo, torturando.

ATTERRITE da una mobilitazione che minacciava di spazzarle via, le forze politiche tradizionali avevano optato per il male minore: canalizzare la protesta sacrificando sì, con il plebiscito del 25 ottobre 2019, la Costituzione di Pinochet, ma fissando paletti ben precisi – attraverso l’«Accordo per la pace» del 15 novembre di quell’anno – che consentissero loro di mantenere il controllo. E di non perderlo neppure dopo la loro clamorosa sconfitta alle elezioni del 14 e 15 maggio 2020 per la formazione della Convenzione costituente, i cui lavori, iniziati il 4 luglio scorso, hanno in effetti evidenziato da subito la difficoltà a intaccare realmente l’essenza capitalista dell’attuale costituzione.
Passati due anni dall’inizio del finimondo, il popolo cileno ha però chiarito che tornare indietro non sarà possibile e si è nuovamente riversato sulle strade e le piazze del paese, rivendicando in particolare la liberazione di tutti i prigionieri politici della rivolta e affollando quella che è sempre stata l’epicentro delle proteste, Plaza Italia a Santiago.

E lì in quella piazza non a caso intitolata alla «Dignidad», i manifestanti hanno voluto mandare il loro messaggio, collocando al posto dell’odiata statua del generale Baquedano – rimossa ufficialmente per restauri dopo essere stata ripetutamente presa di mira dai manifestanti – l’immagine del cane nero con un fazzoletto rosso al collo noto come Negro Matapacos, cioè “ammazza sbirri”, diventato famoso con la sua presenza durante le proteste studentesche del 2011 a Santiago e assurto a simbolo della rivolta del 2019.

MA IL 18 OTTOBRE di quest’anno ha assunto anche un altro e più importante significato simbolico, segnando l’inizio ufficiale del processo di redazione della nuova Carta costituzionale, dopo la tormentata approvazione del Regolamento generale della Convenzione che ha richiesto tre difficili mesi di lavoro.
«Per la prima volta, i popoli del Cile si sono seduti a uno stesso tavolo, in condizioni di uguaglianza e orizzontalità, per discutere e pensare un paese in cui la dignità sia la norma», ha dichiarato la presidente della Convenzione, l’attivista mapuche Elisa Loncon, dando inizio al dibattito costituente. Un processo che si prolungherà per nove mesi, contando, in base al regolamento, sulla partecipazione vincolante della cittadinanza, la quale potrà presentare le proprie proposte alla Convenzione, che le voterà allo stesso modo di quelle avanzate dai costituenti. Con un limite, però, contro cui si infrangeranno inevitabilmente le indicazioni più audaci e innovative: quel quorum dei due terzi previsto dall’accordo del 15 novembre 2019 e confermato grazie ai voti del Frente Amplio, della ex Concertación e della destra.

LA SFIDA si presenta allora assai ardua, tanto più in un contesto segnato dall’imminenza delle elezioni presidenziali del 21 novembre, in cui nessun candidato esprime le rivendicazioni emerse durante la rivolta; dalla proclamazione dello stato d’eccezione in territorio mapuche – una misura che interpella direttamente i costituenti indigeni già alle prese con gli attacchi tanto della destra quanto del movimento per l’autodeterminazione mapuche più radicale – e dalla presentazione di un’accusa costituzionale contro Piñera per lo scandalo dei Pandora Papers.