La protesta contro l’organizzazione della settimana lavorativa secondo l’orario “996” (996gōngzuòzhì, 996工作制), che divenne un trend topic nel 2019, dimostra nelle sue rivendicazioni, tutta la sua attualità nel rimarcare un probabile peggioramento della work-life balance nella società dopo il COVID-19. La pandemia ha cambiato alcuni aspetti, non tutti, della concezione del lavoro nella Repubblica Popolare Cinese, e non è da escludere che diversi paesi seguano l’esempio del dragone per riformare gradualmente i posti di lavoro verso lo smartworking. 

Dopo un crollo a -6.8% nel primo trimestre del 2020, il PIL ha rimbalzato nel terzo trimestre ottenendo +4.9% rispetto all’anno precedente, rendendo la Cina l’unico paese ad aver concretizzato la ripresa economica dopo le misure di contenimento dei primi mesi. Prevenire l’insorgenza di nuovi focolai con tutte le tecnologie a disposizione sarà la garanzia di continuità della ripresa a ridosso dell’importante evento quale è la quinta Sessione Plenaria del Comitato Centrale del Partito Comunista, quando verrà presentato il prossimo piano quinquennale 2021-2025 e discusso il “Vision 2035”. 

Mentre la guerra fredda con l’Occidente diventa irreversibile, fintanto che il futuro inquilino alla Casa Bianca non imporrà un cambio di rotta, il presidente Xi Jinping prepara il suo terzo mandato sotto il segno della self-reliance, della doppia circolazione (ossia stimolare la domanda interna e l’apertura del mercato agli investitori stranieri) e della crescita che, se non raggiungerà il target prefissato, si baserà sulla qualità a dispetto della quantità. Tuttavia, ciò che manca nell’analisi dei media internazionali sullo scenario post-pandemico in Cina sono i costi che pagano i lavoratori della più numerosa classe media al mondo. 

Le questioni legate al mondo del lavoro cinese che più hanno catturato l’attenzione dei ricercatori e attivisti per i diritti umani allo scoppio della pandemia riguardavano la classe operaia tradizionalmente concepita. La Strike Map di China Labour Bulletin ha registrato 473 proteste negli ultimi sei mesi, il 58.5% nell’edilizia, il 25% nei trasporti e la logistica, il 15.2% nel manifatturiero e il restanti nell’estrazione. Più di 50 milioni di lavoratori migranti sono rimasti confinati nelle proprie province rurali fino al termine del lockdown. Eppure, il cuore pulsante dell’ascesa cinese e del perseguimento degli obiettivi del Partito-Stato risiede invece nel settore della tecnologia dell’informazione e dell’Internet delle Cose, il quale poggia su brillanti programmatori e ingegneri che poco riescono a godere del frutto del loro lavoro. 

Apple Store a Pechino. @LaPresse

 

Il 26 marzo 2019, uno sviluppatore anonimo ha creato e condiviso su GitHub il dominio 996.ICU, acronimo di Intensive Care Unit, cioè dove sono diretti coloro che lavorano dodici ore al giorno (dalle 9 del mattino alle 9 di sera per 6 giorni). Uniti dallo slogan “developers lives matter” (che richiama per spontaneismo il movimento Black Lives Matter), i lavoratori digitali denunciarono la 996 weekly schedule diffusa nelle startup e nelle big tech in quanto illegale in base agli articoli 36, 41 e 44 della Labor Law della Repubblica Popolare Cinese entrata in vigore nel 1994, e secondo l’articolo 85 della Labor Contract Law promulgata nel 2009 che prevede sanzioni per i datori di lavoro che non rispettano i vincoli contrattuali e i limiti agli straordinari. La legge nazionale, infatti, limita l’accumulo di più di 35 ore di straordinario al mese Raramente, lamentano i lavoratori, la paga è commisurata alle ore di straordinario (jiābān, 加班) alle quali devono sottostare, pena il licenziamento, decurtazione della paga o mancate promozioni. 

Il lavoro straordinario non è un aspetto esclusivamente legato alla cultura cinese, bensì all’economia incentrata sul profitto nonostante l’avanzare dell’automazione. Lo dimostrano i turchi meccanici che lavorano per Amazon, la cui paga si aggira intorno $1.20 e $6.00 per svolgere “human intelligence tasks”, ossia quelle piccole azioni di data-processing non eseguibili da un’intelligenza artificiale, e che devono essere completate entro le scadenze imposte. In definitiva, uno sweatshop digitale. Tuttavia, ciò che ha spinto la nascita della protesta contro il 996 ha radici nella graduale liberalizzazione dell’economia di stato dell’era Deng, nelle falle legislative del sistema cinese e nell’assenza di pluralismo di organizzazioni sindacali che possano agire nell’interesse dei dipendenti.

Wang Qi, ricercatore alla Beijing Normal University, facendo una stima sui dati del China’s National Bureau of Statistics, ha riportato che l’ammontare delle ore di lavoro di un dipendente full-time è di circa 2,000-2,200 l’anno, molto più degli omologhi negli Stati Uniti (1,790), Paesi Bassi (1,419), Germania (1,371), e Giappone (1,719). Nell’industria dell’internet cinese si contano diversi casi di morti sul lavoro per cause riconducibili a stress, insonnia e infarti, come ha riportato il ricercatore Bingqing Xia, per ottenere un salario che, nell’opinione del prof. Wang Jiangsong del China Institute of Industrial Relations, è troppo basso al fine di permettersi un affitto nei centri urbani, dove il costo della vita è aumentato, e mantenere la propria famiglia.

La prima azienda ad imporre un orario 996 ai suoi dipendenti fu 58.com nel 2016, seguita da Youzan e JD.com e dai colossi Baidu, Tencent, Xiaomi, Alibaba, Huawei e Bytedance qualche anno dopo. A tal proposito il fondatore di Alibaba, Jack Ma, ritenne “una benedizione” lavorare senza sosta finché si è giovani. Della stessa idea Richard Liu e Bai Ya, CEO di JD.com e Youzan che, tramite i loro account personali di WeChat, hanno contrapposto l’etica del sacrificio contro coloro che non amano il proprio posto di lavoro. Questa concezione è stata per la prima volta introdotta da Ren Zhengfei, fondatore di Huawei, che ha sempre richiesto ai suoi dipendenti di essere affamati come dei lupi, sacrificando ogni cosa per concentrarsi sulla mansione e sui clienti e avere successo a dispetto della concorrenza: una “cultura del lupo” anteposta alla “cultura del materasso” che ha richiami ai valori confuciani di gerarchia, collettività, leadership, che ha reso l’ambiente di lavoro privo di ogni forma di contrattazione e management partecipativo.

Fiera della Tecnologia a Pechino. Stand dell’azienda cinese Huawei. @LaPresse

 

Il manifesto 996.ICU su GitHub ha ricevuto attenzione dai media nazionali e internazionali per due motivi: primo, le aziende menzionate sopra sono state inserite in una lista nera compilate dagli utenti e dagli attivisti, creando un’aperta contrapposizione tra manager e sottoposti nelle aziende del paese. Secondo, perché la piattaforma GitHub, di proprietà Microsoft, non ha subito la censura del Great Firewall cinese, lasciando libero sfogo ai lavoratori digitali che non potrebbero lamentarsi pubblicamente nei sui social network autorizzati. Dalla politica di riforme e apertura voluta da Deng Xiaoping, le aziende private hanno sistematicamente violato le strutture normative del codice del lavoro in nome della competizione con i rivali esteri, accresciutasi con l’avvento delle internet startup e con il lancio del Made In China 2025, il piano industriale che vuole portare la Cina di Xi alla supremazia tecnologica globale. 

La pandemia ha accentuato il malumore tra la classe operaia digitale. Li Xiaotian, dottorando all’Università di Hong Kong, ha ribadito come molti lavoratori abbiano “sofferto di ulteriori pressioni dai rispettivi superiori”, insieme a “un abbattimento del confine tra il la vita privata e il lavoro da casa, al punto tale che è difficile quantificare l’ammontare delle ore”. “Anche quando la giornata lavorativa avrebbe dovuto terminare”, continua Li Xiaotian, “i dipendenti venivano contattati su WeChat o altre app per organizzare meeting o aumentare la mole di lavoro”, superando, de facto, l’orario 996 e diventando 24/7 a tutti gli effetti. 

Il futuro dei diritti del lavoro nella società post-COVID è sempre più a rischio. Se nel 2019 la protesta di sviluppatori e attivisti digitali si rivelò, in fin dei conti, un fallimento politico a causa dell’impossibilità di tradurre il 996.ICU in un’organizzazione che potesse mettere in discussione la mancata rappresentanza sindacale, le istanze da loro condivise sui social sono vitali ancora oggi.

Le istituzioni e i governi locali, fino al riconoscimento del primo focolaio a Wuhan, non hanno mai palesato alcuna intenzione di riforma della rappresentanza dei lavoratori così come richiesto dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Inoltre, il lavoro agile presenta fallacie legislative anche al di fuori della Cina, creando dei contenziosi con i datori di lavoro come in Italia in mancanza di una contrattazione nazionale, e anche un aumento dei casi di burnout. In conclusione, quando la modalità di lavoro a distanza viene delegato alle aziende e ai privati senza un severo controllo delle istituzioni e dei sindacati, lo scenario risulta a svantaggio dei lavoratori che ne pagano il prezzo. 

Mentre in Europa sono in discussione dei nuovi standard comuni per l’introduzione del diritto alla disconnessione per chi lavora in modalità digitale, in Cina poco spazio è dedicato a un miglioramento delle condizioni di lavoro nel settore privato, e non ci si aspetta sorprese nemmeno dal Quinto Plenum. Con un nuovo obiettivo fissato al 2035, l’attesa si allungherà ancora.