A sette anni dalla rivoluzione egiziana, Piazza Tahrir non è morta. La monolitica visione occidentale – che celebrò allora le «primavere arabe» leggendole attraverso una lente «europea» e omettendone le radici prettamente locali e storiche – la vede come parentesi chiusa.

Il regime egiziano del generale golpista al-Sisi da parte sua sta operando dal 2013 una sistematica rimozione delle richieste, delle figure leader, della capacità spontanea di mobilitazione.

Ma Tahrir non è morta.

La memoria popolare della rivoluzione cova sotto la cenere di una repressione diffusa, capace di emergere negli scioperi degli operai di Mahalla al Kubra, nelle proteste sotto la sede del sindacato della stampa a difesa delle isole di Tiran e Sanafir, nelle manifestazioni per il pane.

E ora si rifà memoria plastica e concreta nell’incredibile lavoro di raccolta e catalogazione del collettivo Mosireen. Un lavoro lungo sei anni che oggi trova spazio online (nella timorosa attesa di uno shutdown governativo): è l’Archivio 858, una collezione di migliaia di materiali, foto, video, documenti, dei giorni caldi del gennaio 2011 e dei mesi successivi.

Le prospettive sono molteplici: i video sono quelli girati dai manifestanti, dai giornalisti in mezzo alle piazze, immagini dei sit-in e voci dei protagonisti, cittadini di ogni età e attivisti. È il popolo stesso, leader della rivoluzione, a raccontarsi. Il progetto è oggi più che mai fondamentale: si pone come indispensabile barriera difensiva contro i tentativi palesi del regime di rimuovere la memoria della rivoluzione.

Narrativa dell’oblio contro prove documentarie: l’obiettivo di Mosireen è chiaro.

Nato nel 2011, il collettivo di attivisti ha seguito la naturale emersione del cosiddetto citizen journalism, prima raccogliendo e rilanciando i materiali prodotti e poi, negli anni a seguire, formando i giornalisti e gli aspiranti reporter con training dedicati e fornendo loro la strumentazione necessaria. I risultati sono stati importanti: il canale YouTube di Mosireen è stato uno dei più visitati nel mondo arabo tra i canali no profit, il primo in Egitto.

E dopo sei anni di lavoro ha prodotto 858, un vero e proprio archivio della resistenza contro l’oblio del regime. Da una parte la memoria popolare che si fa concreta sotto forma di immagini e voci, dall’altra il rigetto di Tahrir e la sua fisica incarcerazione.

Anche questa plasticamente rappresentata dai corpi degli attivisti leader della piazza, costretti dietro le sbarre delle prigioni egiziane (di cui 16 costruite ad hoc negli ultimi anni per contenere i 60mila prigionieri politici stimati dalle organizzazioni per i diritti umani) e sommersi di accuse che non fanno che spostare in avanti, in un tempo potenzialmente infinito, la fine della detenzione. Simbolo dell’incarcerazione della rivoluzione è Alaa Abdel Fattah, leader di Tahrir.

Ingegnere informatico e blogger, detenuto da tutti i regimi dell’ultimo decennio – quello trentennale di Mubarak, quello islamista di Morsi defenestrato nel 2013, e ora da al-Sisi – ha già scontato tre anni e mezzo di prigione per partecipazione ad una protesta nel 2013.

A dicembre è stato nuovamente condannato ad altri tre anni per «insulto alla magistratura» con pena accessoria, una multa di un milione di lire egiziane, 56mila dollari, a favore del capo del Club dei giudici egiziani.

A luglio dello scorso anno sono stati 43 gli egiziani condannati all’ergastolo per i fatti del gennaio 2011, ufficialmente per vandalismo e attacchi a caserme e stazioni di polizia.

Dietro sta una precisa politica di rimozione di piazza Tahrir che passa per specifiche leggi: dalla cancellazione degli eventi del 2011 dai libri scolastici alla rimozione di decine di giudici critici del regime (prontamente sostituiti con fedelissimi) fino alla famigerata legge anti-terrorismo che vieta qualsiasi forma di protesta di piazza e assembramento.

Dal golpe del 3 luglio 2013 migliaia di persone sono state arrestate, studenti, membri o sospetti affiliati dei Fratelli Musulmani (un migliaio dei quali massacrati in un solo giorno, ad agosto 2013 in piazza Rabi’a al Cairo), attivisti per i diritti umani, semplici cittadini. Scomparsi nelle caserme e le prigioni, torturati, uccisi. O incarcerati ufficialmente per anni.

L’oblio passa anche per l’autolegittimazione del regime attraverso il recupero dei vertici (per lo più militari) sconfitti dalla rivoluzione, a partire dall’ex dittatore Mubarak, a marzo dello scorso anno definitivamente assolto dalla Corte di Cassazione dall’accusa di aver ordinato l’uccisione di centinaia di manifestanti nel gennaio 2011. Prima di lui erano stati assolti l’ex premier Nazif, l’ex ministro dell’interno el-Adly, i figli di Mubarak, i vertici di polizia, esercito e servizi e 170 tra poliziotti e militari di più basso rango.

Mubarak è libero, Tahrir è prigioniera. Del sistema penitenziario ma anche di una precisa politica di rimozione storica che oggi 858 tenta di scalfire, aprendo una breccia nel muro di gomma che circonda la memoria di un popolo che vive oggi sotto un regime ancora peggiore del precedente, in termini di libertà politiche e di condizioni socio-economiche.