Il 26 marzo scorso il Sud Sudan – circa 10 mila casi e 114 morti, ma a fronte di soli 144 mila test, su una popolazione di 12 milioni – ha ricevuto 132 mila dosi del vaccino Oxford-AstraZeneca e il 6 aprile è partita la campagna di vaccinazione: la prima dose se l’è accaparrata la ministra della Sanità, Elizabeth Achuei. E a cascata si è iniziato a vaccinare il personale sanitario.

A questa prima fornitura di vaccini, ottenuta attraverso l’iniziativa Covax (Covid-19 Global Vaccine Access Facility), tesa a garantire un accesso al vaccino «giusto ed equo» anche per i paesi che non possono permettersi di acquistarlo – il Sud Sudan, la più giovane nazione africana, è nella top 5 mondiale dei paesi meno “sviluppati” – se ne è aggiunta pochi giorni dopo un’altra: 60 mila dosi, sempre di AstraZeneca, in questo caso dono congiunto del gigante delle telecomunicazioni MTN e dell’Unione africana. Ma poco dopo le autorità sanitarie del Paese hanno deciso di bloccarne la somministrazione. Motivo, la data di produzione sarebbe antecedente ai 6 mesi indicati come limite per l’utilizzo. Il dottor Richard Laku, che guida la task force anti-covid del ministero della Sanità, ha confermato la scelta del governo di non utilizzare le dosi e di distruggerle. Ma l’Organizzazione mondiale della sanità, a cui si deve tra l’altro il progetto Covax, insiste sul fatto che il vaccino può durare fino a 39 mesi e che in questi casi la procedura prevede la condivisione del lotto “scaduto”” con la casa produttrice, che mediante specifici test è in grado di determinare se il vaccino è stabile e per quanto tempo è ancora utilizzabile.

Per motivi analoghi il Malawi, all’altro capo del continente, avrebbe già distrutto 16 mila dosi di AstraZeneca, parte delle oltre 100 mila ricevute dall’Unione africana ma scadute secondo le autorità lo scorso 13 aprile