Il 16 gennaio di trent’anni fa nel castello di Chapultepec a Città del Messico furono firmati gli accordi di pace fra la destra al governo e la guerriglia del Frente Farabundo Martì de Liberación Nacional (Fmln) che misero fine a dodici anni di guerra civile in El Salvador.

Ma l’intesa era stata raggiunta la sera del 31 dicembre ’91 a New York a Palazzo di Vetro, quando il peruviano Javier Pérez de Cuéllar mise alle strette il presidente Alfredo Cristiani e la comandancia general del Fmln avvertendoli che la sua mediazione nel negoziato sarebbe scaduta quella mezzanotte stessa insieme al suo mandato di segretario generale dell’Onu.

NEL MINUSCOLO EL SALVADOR si era consumata la guerra di contrainsurgencia più sofisticata condotta dagli Stati uniti dopo il Vietnam (con gli ex vietcong che addestravano gli insorti nel Nicaragua sandinista). Per di più nell’istmo centroamericano, tradizionale «cortile di casa» degli States. Ogni giorno Washington foraggiava il governo civico-militare con almeno 2 milioni e mezzo di dollari fra armi e aiuti economici (oltre che consiglieri militari). La sua strategia di guerra di «bassa intensità» era quella di «togliere l’acqua al pesce», ovvero, in un territorio di appena 21mila kmq densamente abitato, di eliminare la popolazione (l’acqua) nella quale la guerriglia (il pesce) si muoveva con grande consenso.

Di qui le almeno 75mila vittime, in buona parte civili.

 

1 febbraio 1992, la festa in Plaza de la Libertad (Ap)

 

Su queste pagine abbiamo seguito il corso di quel lungo conflitto. Fino a quando il primo febbraio 1992 assistemmo all’ingresso in festa dei combattenti del Fronte (disarmati) nella Plaza de la Libertad di San Salvador.

MA NE MANCAVA UNO, che sento qui il dovere di ricordare: Antonio Cardenal, nome di battaglia Jesús Rojas, un dirigente del Fmln che avevo conosciuto un anno prima in una sua breve permanenza in Nicaragua da dove (negli ultimi anni) la comandancia del Fronte dirigeva la guerra. Alto, robusto, di origine nicaraguense e nipote nientemeno che del padre-poeta Ernesto Cardenal (ministro della Cultura durante la Rivoluzione Sandinista). Da ex seminarista gesuita a San Salvador si integrò ben presto nelle fila della guerriglia diventandone comandante di campo.

CONVERSAMMO A LUNGO quel tardo pomeriggio a Granada, sulle rive del Grande Lago Cocibolca; e dopo cena, prima di accomiatarci, mi disse: «La prossima volta che vieni in Salvador potresti fare un reportage nella zona liberada di Chalatenango dove sto». Lo presi in parola e in uno dei miei frequenti viaggi di quel periodo nel Pulgarcito de America (pollicino, come lo chiamava il poeta Roque Dalton) giunto a San Salvador mi passarono clandestinamente i suoi contatti per raggiungerlo nella sua area al confine con l’Honduras. Era tutto organizzato, quando venni a sapere che la settimana dopo re Juan Carlos e la consorte Sofia avrebbero visitato il Nicaragua, recandosi proprio a Granada, prima città fondata dagli spagnoli su terraferma in America Latina e rimasta dov’era. Mi consultai con la redazione esteri e decidemmo di rimandare Chalatenango per seguire il primo viaggio nella storia di regnanti di Spagna in Nicaragua.

Destino volle che quell’alba dell’11 aprile 1991 (invece di essere con lui) ero sulla via dell’aeroporto per rientrare col volo di Copa a Managua, quando Jesús cadde in un’imboscata dell’esercito insieme ad altri 14 guerriglieri…

 

 

LE OSTILITÀ SI SAREBBERO concluse meno di un anno dopo con un pari e patta militare. Ma evidente era l’affermazione del Fmln sul piano politico, tanto più da banana republic quale era stato storicamente El Salvador. Infatti, se pur nessuno degli autori dei massacri di civili (come quelli del Rio Sunpul o del Mozote) finì in carcere grazie a un’amnistia successiva, ben 112 ufficiali superiori della forza armata vennero rimossi e pensionati. Il nuovo esercito e la polizia furono ricostituiti integrando anche ex guerriglieri. Solo un paio di militari finirono agli arresti per la mattanza dei sei gesuiti dell’Università Centroamericana del novembre 1989 (durante la tentata ofensiva final del Fronte).

L’assassinio invece dell’arcivescovo Oscar Romero del marzo 1980, all’indomani del quale di fatto scoppiò il conflitto, è rimasto tuttora impunito.

 

Una madre che ha perso il figlio nella guerra civile salvadoregna chiede giustizia per i desaparecidos e le vittime (Ap)

 

Deposte le armi non si è registrato pressoché alcun omicidio politico nel Salvador e si instaurò una dinamica politica ed elettorale accettabilmente democratica rispetto al resto della regione.

Ciò che non venne affrontato è la revisione della proprietà delle terre pur timidamente prevista da quegli accordi, in un paese in buona misura ancora prigioniero dell’atavico schema coloniale oligarchia versus peones; che provocò la strage di campesinos del 1932 (dove perì il ribelle Farabundo Martì) ad opera di un sanguinario regime militare che solo una lotta armata avrebbe potuto più tardi scalzare.

NEPPURE L’AVVENTO al governo dell’ex guerriglia negli ultimi due mandati (dopo i tre della destra) ha potuto scalfire più di tanto le disuguaglianze sociali, con il Fronte che non riusciva a far passare le proprie riforme per non avere la maggioranza in parlamento, dove veniva sistematicamente boicottato dal partito Arena. Senza contare poi le divisioni e i settarismi nella sinistra salvadoregna. Col risultato di non riuscire nemmeno a contenere il fenomeno della violenza delle maras (bande giovanili) e la massiccia emigrazione verso il nord, le cui sole rimesse familiari riescono a tenere in piedi i magri bilanci dei più poveri.

 

T-shirt con l’immagine di Najib Bukele (Ap)

 

Fino a che l’Fmlm stesso ha partorito l’attuale giovane presidente Najib Bukele, sconsideratamente espulso dal suo seno quando era sindaco della capitale. Scagliandosi contro questo paralizzante bipartitismo, il twittero Najib si è imposto nel 2019 alla massima carica dello stato e ha stravinto le elezioni parlamentari e municipali del 2021 col suo partito Nuevas Ideas, conquistando il favore della maggioritaria giovane e disperata popolazione del Salvador. In un delirio di potere personale ha poi subordinato il potere giudiziario e iniziato a perseguitare la stampa indipendente.

LA SCOMMESSA DI BUKELE oggi è quella di “salvare” il paese con il bitcoin, la criptomoneta che con azzardo ha messo in circolazione dal settembre scorso e che ha generato grande incertezza, oltre a risvegliare una sinistra ridotta nei consensi a una cifra. Recentemente Bukele ha annunciato pure la prossima fondazione di Bitcoin City, che sarà finanziata con l’emissione di Bitcoin Bond e interamente alimentata con energia geotermica del vulcano Conchagua.

Mentre in occasione di questo storico 30mo anniversario ha annullato per decreto la commemorazione di quegli accordi di pace che ha definito una «farsa» e «l’inizio dell’era della corruzione», convertendo il 16 gennaio in «festa delle vittime della guerra»; come a dire dei caduti provocati dai due stessi contendenti. Non solo: ha ordinato a polizia ed esercito di bloccare gli accessi a San Salvador a bus e pulmini che trasportavano manifestanti da tutto il paese per una mobilitazione nazionale che ha avuto tuttavia un grande successo.

Ma un presidente che rimuove o, peggio, tergiversa la memoria, ipoteca per sé (e per il proprio paese) un pessimo futuro…

Errata Corrige

L’anniversario degli storici accordi di pace “negato” dal presidente twittero e pigliatutto, Najib Bukele, convinto che solo le criptomonete possano risollevare le sorti del Pulgarcito de America, il minuscolo paese dell’istmo centramericano in cui si è consumata la guerra di “contrainsurgencia” più sofisticata condotta dagli Usa dopo il Vietnam. Con 75mila morti, perlopiù civili. Dal Fronte Farabundo Martì alla città dei bitcoin.