I sintomi evidenti di una crisi irreversibile della Repubblica democratica tedesca si erano ormai pienamente manifestati, e sempre più intensamente a partire dall’arrivo di Gorbaciov al Cremlino nel 1985, quando nel novembre di trenta anni fa il suo confine, simbolico e materiale, si sgretolò con incredibile rapidità, travolto da una spinta improvvisa e incontrollabile. Non da un processo negoziale o politicamente governato, né da una “rivoluzione liberale”, come alcuni sostengono, e nemmeno da un’insurrezione popolare. Sembrava di assistere a un fenomeno naturale potente e ineluttabile. Così, ciò che poteva essere agevolmente previsto, divenne oggetto di sorpresa, di stupore, di sconcerto. Per il potere tedesco orientale che, pur circondato dalla sua immensa rete di spie e delatori, non si era reso conto di aver perso ogni presa sulla società e di governare ormai su un paese immaginario. Per le stesse persone che attraversavano incredule quello che era stato il confine impenetrabile tra due mondi contrapposti. Per l’Occidente che, pur convinto della sua superiorità vittoriosa, non si era immaginato in quelle forme e in quei tempi il tracollo del blocco orientale. Per l’Europa che in fondo si sentiva rassicurata dalla divisione della Germania e si interrogava preoccupata sul futuro. Una irripetibile congiuntura storica aveva lasciato spazio non a un progetto politico ma a una moltitudine sospinta da una pluralità di desideri e, soprattutto, da quello di tutti il più potente: la libertà di movimento, quella stessa libertà che l’Europa dei nostri giorni si ostina a ostacolare e negare.

Il crollo del muro, e dunque dell’armatura che proteggeva il regime orientale e la sua ortodossia, accese o rivitalizzò speranze e aspirazioni che pure non erano mai state del tutto annichilite nel soffocante ordine della Rdt. Molti che le avevano coltivate e nutrite, spesso al prezzo di emarginazione, repressione ed esilio, pensarono che potesse aprirsi una stagione di riformismo democratico piuttosto che un puro e semplice appiattimento sul modello della società occidentale. In fondo, al di là del muro si era sviluppata una dissidenza democratica a sinistra che non contava solo importanti intellettuali come Havemann, Heiner Müller, Stefan Heym, Christa Wolf, Rudolf Bahro, Wolf Bierman, Volker Braun Günter Kunert e molti altri, ma anche estesi movimenti nella società civile e intorno alle chiese. Negli ultimi mesi di vita della Rdt c’era chi pensava a una confederazione tra le due Germanie, chi lavorava a una nuova Costituzione per la Germania, tutti si esercitavano nell’immaginare una nuova originale democrazia. Coltivando l’illusione che l’89 potesse aprire su qualcosa che nessuna delle due Germanie era mai stata. Di tutto questo nelle celebrazioni del trentennale vi è ben scarsa traccia e non c’è da stupirsene. Quasi subito la via di una pura e semplice annessione (Anschluss) alla Bundesrepublik si era imposta come soluzione senza alternative, come l’esito più desiderabile e concreto. Secondo uno schema che vedeva da una parte il fallimento di un sistema e l’implosione del suo stato, dall’altro il trionfo del modello occidentale come unica garanzia di benessere. In mezzo nulla di rilevante, fantasie politiche senza fondamento alcuno. Ben presto fu chiaro che questa capitolazione implicava tuttavia il suo “guai ai vinti!”. I quali non erano solo la burocrazia e la nomenklatura del regime ma, come si sarebbe visto, l’intera popolazione della ex Rdt. Se il muro politico era crollato in breve tempo e la “riunificazione etnica” immediatamente compiuta, il muro sociale è rimasto in piedi, per certi versi fino ad oggi. Cominciava il duro apprendistato all’economia di mercato imposto ai cittadini dei nuovi Länder che dovevano levarsi dalla testa le protezioni concesse dallo stato-padrone e imparare a cavarsela nella “società del rischio”, non senza ringraziare chi sfruttava la loro posizione di svantaggio.

Ad abbattere il muro di Berlino, ormai infragilito da innumerevoli crepe, fu una moltitudine ingabbiata desiderosa di libertà senza aggettivi. A definire e governare l’ordine che ne sarebbe seguito fu invece un liberismo dogmatico e severo, scarsamente mitigato dal paternalismo dei grandi partiti popolari della Bundesrepublik, che oggi ne stanno pagando con il proprio declino le conseguenze. Il manipolo di esuli, profughi, perseguitati politici e razziali portati da un esercito straniero a governare su svariati milioni di ex nazisti fece ricorso allo stato di polizia. I manager e i politici liberisti trovatisi a governare su altrettanti ex socialisti si sono serviti delle diseguaglianze, delle discriminazioni, delle costrizioni derivate dall’ideologia del mercato e dalle sue cosiddette leggi. Nella riconversione dell’economia tedesco-orientale fu messo in opera un vero e proprio “piano del capitale”.

Nel mezzo l’’89: i pochi mesi in cui i cittadini della Rdt tentarono di riprendere in mano il loro futuro, di levare una voce propria sulla politica tedesca e sull’organizzazione della società. Prima che un “sistema” imposto tornasse a condizionarne le esistenze. Alcuni videro rivivere in quel passaggio liberatorio, nella resa dell’autorità, lo spirito del ’68. Non si può dar loro torto, ma il corso della storia aveva ormai cambiato direzione. Nulla di quel che fu l’’89 sopravvive nell’oriente “illiberale” d’Europa.